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Blog @Americana

Il generale Austin e le girevoli porte Washingtoniane

Mario Del Pero
14 Dicembre 2020

Che il Presidente eletto Joe Biden sia già intervenuto, con un articolo su “The Atlantic”, per giustificare la nomina a segretario della Difesa dell’ex generale Lloyd Austin è indicativo della problematicità di questa decisione e dell’opposizione che essa è destinata a generare nell’iter di conferma al Senato. Biden ha offerto diverse spiegazioni: la competenza che Austin ha maturato nei suoi 41 anni all’Esercito, dove ha chiuso la sua carriera come Generale a 4 stelle; l’obiettivo di valorizzare un pluralismo e una diversità particolarmente visibile nelle Forze Armate, fra le prime istituzioni a promuovere una desegregazione e nella quale oggi sovrarappresentati e in crescita sono sia gli afro-americani sia gli ispanici (e Austin sarebbe il primo Segretario della Difesa nero della storia); il ruolo centrale che le Forze Armate sono destinate a svolgere nella campagna di distribuzione e somministrazione del vaccino contro il Covid-19; il suo rapporto personale di stima e fiducia con Austin.

Alla lista se ne potrebbero aggiungere altre, sottaciute ma evidenti, tra le quali il basso profilo di Austin che – diversamente da altri ex generali - difficilmente farebbe ombra al Presidente e, ancor più, l’estrema popolarità delle Forze Armate, istituzione nella quale gli americani ripongono forte fiducia (sei volte più che nel Congresso, ad esempio) e che la politica, sempre più debole, da tempo cerca di cooptare e usare come scudo (come vedemmo bene anche con Trump).

La nomina rimane nondimeno problematica e soprattutto tra i democratici si levano voci critiche, tanto che la senatrice (e candidata alle primarie) Elizabeth Warren già annuncia il suo voto contrario e altri potrebbero seguirla (difficile però immaginare non vi sia una maggioranza sufficiente alla conferma, che vari repubblicani “responsabili” voteranno sicuramente a favore). Tre sono i problemi, non irrilevanti, sul tavolo. Il primo è che si tratta appunto di un militare, laddove tradizione vuole che il posto di Segretario della Difesa, istituito nel 1947, serva anche per riaffermare il controllo civile sulle istituzioni militari. Eccezioni ve ne sono state, ma rarissime (due) e non poco controverse: quelle di George Marshall nel 1950 e di Jim Mattis nel 2017 (paradossalmente, nello stesso periodo sono stati di più i militari di carriera nominati segretari di Stato). Strettamente legato a questo è il secondo problema: Austin non è solamente un militare di carriera, ma è andato in pensione appena 4 anni fa. La legge impone una finestra – un periodo di cooling-off – di sette anni prima che un militare possa assumere posizioni di “leadership” al dipartimento della Difesa; come per Mattis nel 2017, anche per Austin si dovrà chiedere (e votare) una deroga alla legge. Terzo e ultimo: una volta andato in pensione, Austin – come tantissimi altri militari – ha creato la sua propria azienda di consulenza e accettato una posizione lautamente retribuita (da quanto sappiamo circa un milione e mezzo di dollari in poco più di tre anni) nel consiglio di amministrazione di un gigante dell’industria militare, United Technologies Corp Inc. (UTC) poi fusasi con Raytheon. Industrie, queste, che dal Pentagono ricevono ricche commissioni: secondo i dati di cui disponiamo, nel solo 2019 Raytheon avrebbe ottenuto commesse per circa 16 miliardi e 300 milioni di dollari e UTC per 8 miliardi e 850 milioni. Vi sarebbe insomma un conflitto d’interessi significativo e potenzialmente macroscopico, che Raytheon è, e sarà, uno dei principali contractors del dipartimento della Difesa guidato da Austin.

La vicenda ci dice molte cose: delle problematiche porte girevoli, pubbliche-private, della politica washingtoniana, sì, ma anche della posizione centrale – e parimenti critica – delle istituzioni militari. Il Pentagono, lo sappiamo, è una potenza senza pari: quasi uno Stato nello Stato, come la stessa valenza iconica del suo edifico (e della sua cittadella, Pentagon City, a ridosso di DC) si premura in fondo di ricordarci. Il Pentagono è la più grande struttura ospitante uffici del mondo; secondo alcuni calcoli, il dipartimento della Difesa è il maggior datore di lavoro del mondo. Il suo bilancio supera i 700 miliardi di dollari  (i 900 se includiamo altre voci di spesa indiretta), più della metà della “spesa discrezionale”, quella votata annualmente e non “obbligatoria”, ossia imposta da leggi in vigore, degli Stati Uniti. In termini di percentuale sul PIL – circa il 3.5% – siamo ben lontani dai picchi (il 10%) della prima Guerra Fredda. E però di cifre astronomiche, e d’interessi e pressioni lobbistiche conseguenti, stiamo parlando. Quello che a suo tempo il Presidente Eisenhower definì il complesso “militare-industriale” è certo una realtà più decentrata e complessa delle caricature monolitiche che spesso ne vengono fatte (e che la formula eisenhoweriana sembrava voler indicare). Ma la sua importanza e influenza non possono essere sottostimate, come del resto i potenziali (e inevitabili) effetti corruttivi che ne conseguono.

A questo – ai monumentali interessi economici che ruotano attorno al Dipartimento della Difesa – dobbiamo aggiungere un secondo fattore, ben evidente anche nella vicenda Austin: il ruolo pubblico, e indirettamente politico, maturato oggi dalle élites militari. Ruolo, questo, strettamente legato alla fine della coscrizione obbligatoria nel 1973 e alla nascita di un corpo professionale di militari fattosi vieppiù impermeabile e separato. Ma legato anche alla peculiare centralità della guerra contemporanea, e delle sue tante contraddizioni, nella cultura pubblica statunitense. Semplificando molto, possiamo dire che nell’ultimo mezzo secolo - e in particolare nell’interludio 1991 – 2011 ( inizio Iraq 1 – fine Iraq 2, più o meno) – abbiamo assistito a una celebrazione e anche rilegittimazione della guerra: come strumento centrale, se non primario, nella panoplia di potenza statunitense; ovvero come mezzo privilegiato dell’azione internazionale di Washington. Mezzo da dispiegare con frequenza crescente, ma di cui nascondere il più possibile gli orrori, prima con l’embedded journalism e poi – divenuto questo impraticabile – limitando quasi a zero il rischio di proprie vittime, con le guerre dei droni. Ovvero mezzo di cui subappaltare la conduzione, per renderla politicamente tollerabile e, appunto, il meno possibile visibile. Da questo è derivato un doppio cortocircuito, che la vicenda Austin a modo suo sembra ben compendiare. Da un lato si celebra la guerra e, ancor più, i membri delle sue istituzioni in una forma di militarismo che permea e domina la cultura pubblica e popolare del paese (su questo sono imprescindibili gli studi di Bacevich, che tanto è debole e manicheo in certe sue ricostruzioni della storia della politica estera americana, quanto ricco e convincente quanto racconta il “nuovo militarismo statunitense”). Dall’altro quella guerra è sempre più lontana dall’esperienza dei normali cittadini americani (e anche questo ne spiega la loro infatuazione) che ne delegano costi e responsabilità alle sue forze armate iper-professionalizzate ovvero, quando anche questo diventa politicamente intollerabile a causa dei costi umani e materiali del conflitti (come nel caso dell’Iraq-2), a contractors privati, che nell’outsourcing di tanti elementi della politica di sicurezza hanno trovato un nuovo, iper-profittevole business.

Riassumendo: da un lato abbiamo i militari, e le loro élites, che sono celebrati (spesso in contrapposizione ai politici corrotti), ricercati – basti vedere quanti sono oggi esperti televisivi – e popolari; dall’altro un business di contractors che è esploso e che ai medesimi militari spesso si rivolge, per le loro competenze, ci mancherebbe, ma ancor più per i loro contatti e connessioni. A lubrificare e facilitare il tutto, le porte girevoli del lobbismo washingtoniano che trova un nuovo canale d’influenza e di profitto. In mezzo a questo, infine, una politica debole e spesso delegittimata, sì, ma anche strutturalmente inquinata da un modus operandi che s’illude di gestire e che dal quale in realtà non riesce per nulla ad affrancarsi. E in cui – dopo gli anni pregni di corruzione e di conflitti d’interesse del suo predecessore - il primo atto di un Presidente eletto è quello non solo di confermare pratiche problematiche e discutibili, ma anche di disattendere un preciso impegno della campagna elettorale e di rinnegare quanto detto e fatto con la nomina di Mattis solo 4 anni prima.

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AUTORI

Mario Del Pero
ISPI Senior Associate Research Fellow e professore, Sciences Po

Image credits (CC BY-NC-ND 2.0): West Point US Military Academy

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