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Le misure dei vari gruppi
Il jihadismo ai tempi del coronavirus
Eugenio Dacrema
02 aprile 2020

Il coronavirus ha cambiato il mondo proprio per tutti, dalla Cina al Sudafrica, colpendo presidenti e normali cittadini. Fra i tutti ci sono perfino i jihadisti internazionali (o aspiranti tali), che come noi si sono trovati a gestire una situazione senza precedenti. Le reazioni delle varie organizzazioni della galassia jihadista non si sono fatte attendere, e come spesso è accaduto negli ultimi anni, anche in occasione della crisi coronavirus non hanno mancato di marcare le differenze di approccio tra gruppi, almeno tecnicamente, affini.

È emersa, per esempio, ancora una volta la competizione, e la differenza, fra le leadership del cosiddetto Stato islamico (IS) e Al-Qaeda. Quest’ultima si è infatti mantenuta sul vago, preferendo l’abituale stile teorico: in un documento di 5 pagine pubblicato sul suo portale As-Sahab, la leadership qaedista ha infatti descritto Covid19 come il giusto castigo divino inflitto da Dio sugli infedeli (in particolare apostati, crociati e sionisti) per le loro azioni repressive e violente nei confronti dei credenti. Lo Stato islamico, al contrario, ha come di consueto preferito un approccio più pragmatico. Pur in difficoltà per la perdita della sua dimensione territoriale in Siria e Iraq e dall’uccisione del suo primo sedicente “califfo” Abu Bakr Al-Baghdadi, IS rimane infatti molto attivo attraverso gruppi ad esso affiliati in diverse parti del mondo. In una prima comunicazione sulla sua rivista elettronica Al-Naba del 15 marzo, l’organizzazione ha pubblicato linee guida di comportamento per i fedeli per proteggersi dal virus. Una moderna infografica spiega al fedele la necessità di mantenere distanze adeguate, lavarsi sovente le mani, e starnutire nel gomito, non molto diversamente da ciò normalmente promulgato dalle autorità nazionali dei paesi colpiti. Forse più importante da notare è però il riferimento agli spostamenti: i fedeli sono tenuti ad evitarli e rimanere nel luogo in cui sono, anche se quest’ultimo è una zona di focolaio, per evitare di diffondere l’epidemia. Per alcuni giorni tale indicazione ha dato luogo a speculazioni sul suo significato relativamente alle attività terroristiche del gruppo. Molti hanno infatti visto nel messaggio un invito a sospendere le operazioni, compresi gli spostamenti necessari per portare a termine eventuali attacchi. Forse offesa per le intenzioni (temporaneamente) pacifiste ad essa attribuite, la leadership di IS ha perciò deciso di pubblicare una sorta di rettifica, sempre su Al-Naba, il 22 marzo. In questa seconda comunicazione il gruppo ha sottolineato il grande momento di vulnerabilità che affrontano i suoi nemici internazionali, soprattutto l’Occidente, e la necessità di colpirli ora che sono distratti dalla gestione della pandemia. Infine, nella terza e finora ultima comunicazione uscita su Al-Naba, il gruppo ha discusso le numerose teorie del complotto circolanti fra gli adepti riguardanti l’origine del coronavirus, secondo alcuni messo a punto dal governo americano per colpire i suoi nemici. La leadership dello Stato islamico ha tenuto a precisare che tali teorie non hanno fondamento e che Covid19 si è generato e diffuso per volontà di Dio.

Ma se i due maggiori gruppi di riferimento della galassia jihadista hanno dedicato solo una manciata di proclami alla questione, ben diversa è stata l’attività in proposito di alcuni gruppi più piccoli, in alcuni casi ad essi affiliati. Quest’ultimi, spesso operanti all’interno di territori sotto la loro amministrazione, hanno infatti dedicato al coronavirus gran parte delle loro attività comunicative nell’ultimo mese e mezzo. Secondo i dati raccolti da IntelCenter Database, i più attivi in questo senso sono stati i membri del gruppo estremista siriano Hayat Tahrir Al-Sham (HTS), erede di Jabhat Al-Nusra e fino al 2017 ufficialmente affiliato ad Al-Qaeda. Il gruppo è infatti in controllo della regione siriana di Idlib e nell’ultimo mese si è trovato a dover gestire nella regione sotto il suo dominio il focolaio che si starebbe diffondendo nell’intera Siria. Analogamente, altri gruppi come i talebani afghani e gli Al-Shabab somali hanno dovuto fronteggiare la diffusione del coronavirus, per quanto ad ora più limitata, nei territori da essi controllati.

Infine, di crescente interesse per le autorità preposte al monitoraggio di tali gruppi sono gli effetti sui tassi di radicalizzazione delle prolungate quarantene imposte sulle popolazioni di molti paesi del mondo. Sarebbe infatti in forte crescita il traffico internet verso siti e canali social utilizzati dalle organizzazioni terroristiche. Il rischio sarebbe quindi quello che costringendo milioni di persone a utilizzare significativamente più del normale gli strumenti digitali, alcune di esse, magari con profili antropologici già a rischio, finiscano per incappare e interessarsi ai materiali online e ai messaggi di organizzazioni terroristiche.

In ogni caso, il rischio, quanto meno per attacchi terroristici convenzionali, è considerato basso dalle autorità, almeno fino a quando le quarantene rimarranno in vigore. Gli impedimenti agli spostamenti e agli assembramenti rendono perfino la definizione di un target sensibile estremamente ardua, non essendoci appunto luoghi di aggregazione in questo momento frequentati da civili. Obiettivi sensibili ovviamente ce ne sarebbero, come le forze dell’ordine – spesso incaricate di sorvegliare il rispetto delle misure di contenimento nelle strade – e gli ospedali. È però, almeno per adesso, improbabile che obiettivi del genere vengano considerati dai gruppi terroristici, da tempo diventati attenti a cercare prima di tutto obiettivi in grado di riscuotere sostegno popolare. Difficilmente in questo momento particolarmente delicato attacchi contro forze dell’ordine ed infrastrutture primarie riuscirebbe a riscuotere simpatia sia dentro che fuori dall’Europa, perfino tra gruppi sociali di solito più recettivi verso alla propaganda jihadista.

Le cose però potrebbero cambiare nel corso delle settimane e dei mesi. Periodi prolungati di quarantena, e i danni economici ad essi connessi, potrebbero ben presto far emergere ineguaglianze e divisioni all’interno delle società (in Europa e soprattutto in altre regioni come il Medio Oriente). Soprattutto quelle aree abitate da lavoratori informali e le loro famiglie, con scarso accesso alle misure di welfare e sostegno messe in atto dai vari paesi, potrebbero trasformarsi in terreno particolarmente fertile per la propaganda jihadista, diventata molto abile nello sfruttare le contraddizioni dei sistemi sociopolitici locali.

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Matteo Villa
ISPI

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terrorismo coronavirus
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AUTORI

Eugenio Dacrema
Co-Head, ISPI MENA Centre

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