La dichiarazione di lunedì notte in cui l’esercito keniota affermava di avere ormai il controllo su quasi tutto il Westgate Mall, nonostante alcuni membri del commando di Al Shabaab fossero e siano ancora asserragliati all’interno del centro commerciale, può essere considerata una buona metafora di ciò che continua ad accadere sul piano regionale.
L’incursione al Westgate di Nairobi da parte di un gruppo armato legato ad Al Shabaab, il movimento integralista che agisce in Somalia, ha provocato almeno 62 morti e 200 feriti, riportando la memoria all’attentato contro l’ambasciata degli Stati Uniti, che aveva scosso Nairobi nell’agosto 1998.
Quando il governo keniota, nel 2011, decise di avviare l'"Operation Linda Nchi" (Proteggere la Nazione), cioè un’incursione militare nella vicina Somalia, al fine di tutelare i confini respingendo Al Shabaab e conquistando il porto di Kisimayo, un indispensabile polo logistico, molte furono le critiche e le perplessità. Sia da parte keniota che da parte somala, si temevano le conseguenze di un’azione precipitosa e dagli scopi poco chiari, che, se protratta, avrebbe finito per assomigliare più a un'occupazione che a un intervento mirato. Il Kenya era sempre più preoccupato dal dilagare di una situazione di totale insicurezza oltre confine e dalle azioni di Al Shabaab nel suo stesso territorio con la copertura eventuale di moltissimi profughi somali raccolti in campi non lontani dal confine. Nel 2002, un hotel sulla costa di proprietà israeliana era stato attaccato e un razzo aveva mancato di poco un volo partito dall’aeroporto di Mombasa. In anni più recenti il campo rifugiati di Dadaab è diventato un posto altamente pericoloso, in cui si sono verificati rapimenti di cooperanti occidentali e kenioti. In Somalia, invece, si temevano le ripercussioni di un'eventuale controffensiva keniota, che avrebbe penalizzato la popolazione civile e provocato una spirale di ritorsioni e una conseguente escalation di violenza.
Nel 2012 la liberazione di Kisimayo è stata salutata come un successo. Le truppe keniote sono effettivamente di grande aiuto per l’Amisom, che in un anno è riuscita a recuperare avamposti importanti e a favorire la lenta ripresa di Mogadiscio. Tuttavia Al Shabaab è tutt’altro che sconfitta e la sua presenza è ancora diffusa nelle zone rurali del centro del paese, per un ammontare di circa 5000 unità.
L’irruzione al Westgate, preceduta da diverse dichiarazioni e minacce contro il governo “imperialista” keniota, è stata sicuramente un modo per rimarcare che i seguaci di Ahmed Abdi Godane, il leader di Al Shabaab, sono ancora forti e capaci di colpire sia all’interno che all’esterno del paese. Monito, in seconda istanza, valido anche per gli stessi membri di Al Shabaab, visto che il gruppo islamista è stato recentemente attraversato da tentativi di scissioni interne. La stessa composizione multinazionale del commando, con la possibile presenza di militanti con cittadinanza americana e inglese, e altri arabofoni, è indice di un movimento che, attraverso l’affiliazione con al-Qaida, dispone di radicate connessioni internazionali. La scelta dell’obiettivo, tra l’altro indicato dalle agenzie di sicurezza come uno dei più sensibili della città, è stata fatta nell’ottica di massimizzare l’impatto dell’attacco, colpendo cittadini espatriati e soprattutto prendendo di mira le classi più agiate nel luogo simbolo del capitalismo occidentale in Africa. Visto il potenziale di attacco del commando, gli esperti si interrogano sulla possibilità che alcuni membri del già volatile esercito regolare somalo abbiano ricevuto l’addestramento dell’esercito keniota e abbiano poi disertato unendosi alle file di Al Shabaab, potenziandone l’incisività.
Lo scenario acquisisce così i tratti del ricorrente dilemma sulla war on terror: uno stato che si sente minacciato dall’insicurezza ai confini decide di risolvere il problema alla radice, intervenendo militarmente e unilateralmente in un paese dalla sovranità debole e rimanendo di fatto ostaggio di quella che si pensava essere un’azione risolutiva. Anche se i contingenti kenioti sono stati riassorbiti nella missione Amisom, forse anche per limitare l’esposizione del Kenya, di fatto questo intervento, perpetrato da uno stato vicino che ne ha rivendicato la legittimità a partire dalla difesa dei propri confini, si colloca in una zona grigia mal tollerata dalle nazioni africane che continuano a preferire la non ingerenza.
Nella fretta di riguadagnare credibilità presso gli alleati occidentali, anche a fronte dell’accusa della Corte Penale Internazionale al presidente Uhuru Kenyatta e al vice-presidente William Rutu di crimini contro l’umanità, per fatti che risalgono alla crisi post-elezioni del 2007, Nairobi ha optato per un’operazione esemplare invece di puntare di più sul potenziamento di tutti quei dispositivi di cooperazione e scambio di informazioni indispensabili alla lotta al terrorismo, scoprendosi così di nuovo vulnerabile in casa propria: solo adesso, infatti, si parla della porosità delle frontiere e della facilità con cui è stato possibile raggirare i controlli.
Il rappresentante speciale dell’Onu per la Somalia, Nicholas Kay, ha insistito sulla necessità di intensificare la lotta ad Al Shabaab, dal punto di vista militare, politico, e pratico, ribadendo la centralità del ripristino della sicurezza. Ancora una volta c’è il rischio che, fra tutte le componenti, quella militare finisca per essere potenziata a discapito delle altre, altrettanto strategiche.
Marta Montanini, ISPI Research Assistant