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Commentary

Il Kenya fa scuola di democrazia: rimandato a ottobre

Giovanni Carbone
25 ottobre 2017

Per la prima volta in Africa subsahariana, un’elezione presidenziale viene ripetuta per volere di un’autorità giudiziaria garante della costituzione nazionale. Accade in queste ore in Kenya, dove lo scrutinio di agosto era stato annullato all’inizio del mese successivo dalla Corte Suprema sulla base di errori e cattiva amministrazione nelle procedure di conteggio, registrazione e comunicazione dei voti. Tutto da rifare per il presidente in carica Uhuru Kenyatta, che era stato dichiarato vincitore dalla Commissione Elettorale Indipendente (IEBC) già dopo il primo turno con un vantaggio di quasi dieci punti, quanto per il suo rivale Raila Odinga, ormai storico leader dell’opposizione.

Tra i paesi africani, il Kenya è da sempre uno dei poli di maggior dinamismo e vitalità. Si è confermato tale anche in questi anni, sia da un punto di vista economico quanto politico. È l’economia di riferimento nell’Africa orientale, ha una crescita media attesa superiore al 6% per i prossimi cinque anni, e la sua “Silicon Savannah” incarna le ambizioni di innovazione e rivoluzione tecnologica forse meglio di qualunque altro stato nella regione subsahariana. Politicamente, il paese ha superato il lungo periodo di dominio incontrastato del KANU, il partito al governo dall’indipendenza fino all’inizio del nuovo millennio, ma si è da allora trovato ad affrontare una serie di passaggi tortuosi sul percorso di una difficile democratizzazione.

Con l’avvio nei primi anni Novanta dell’epoca “democratica” – più correttamente, multipartititica – la prima fase fu segnata dalla continuità al governo del KANUdi Daniel Arap Moi, un caso emblematico di stretto controllo sui risultati delle elezioni tanto alla tornata inaugurale nel 1992 quanto in quella successiva nel 1997. Eppure Arap Moi – diversamente da colleghi come Robert Mugabe, che nonostante i suoi 93 anni occupa ancora lo scranno più alto in Zimbabwe e sembra volersi ripresentare anche alle prossime elezioni – aveva infine accettato di farsi da parte arrivato al termine dei due mandati concessi dalla costituzione, preludendo peraltro alla perdita del potere da parte del partito stesso. Appoggiato da una eterogenea alleanza, nelle storiche elezioni del 2002 Mwai Kibaki sconfisse il candidato alla successione messo in campo dal KANU, Uhuru Kenyatta, figlio del primo presidente e padre fondatore della repubblica Jomo Kenyatta. Il riconoscimento della sconfitta da parte di KANUe del suo candidato proiettarono improvvisamente il paese tra i pochi, a sud del Sahara, in grado di gestire un delicato passaggio il potere attraverso le urne. Tutt’altro che attenuate, tuttavia, le divisioni e la frammentazione politica trovarono nuove strade e nuove forme di espressione. È così che Odinga, alleato e in qualche modo kingmaker di Kibaki nel 2002, cinque anni dopo si ritrovava a sfidarne la riconferma. Le elezioni del 2007 si trasformarono così in un’occasione per la violenta politicizzazione di alcune importanti linee di divisione etnica nel paese, in particolare quella tra i kikuyu – elite economica e di governo del paese – e i luo ed altre comunità storicamente tenute fuori dalle cerchie più strette del governo. Gli scontri esplosi nel periodo pre- e, soprattutto, post-elettorale hanno lasciato un segno profondo nella memoria non solo dei kenioti, una sorta di esempio, riferimento e monito circa i rischi cui può portare la competizione elettorale quando una parte dei candidati decide di forzare i toni etnici. Kibaki sarebbe comunque rimasto in sella fino al 2013, quando Kenyatta “junior” riuscì finalmente a sfruttare un’elezione senza incumbent per arrivare alla presidenza. 

Un altro balzo in avanti, ed eccoci, quest’anno, al sesto appuntamento elettorale consecutivo nell’arco di un quarto di secolo, senza mai saltare una tappa anche quando fosse ostica. E spinosa si è dimostrata anche questa tornata, segnata ormai indelebilmente almeno dall’annullamento del voto di agosto, come già riportato. Ma la salita non è finita. Il 10 di ottobre Odinga, il cui ricorso aveva costretto la Corte Suprema a prendere una posizione e quindi ad annullare il voto, ha ufficialmente dichiarato il proprio ritiro. L’intento dichiarato era quello di costringere la Commissione elettorale a posticipare l’intero processo per introdurre i cambiamenti – nel proprio operare e nella propria composizione – giudicati indispensabili per una vera competizione. Ma è diffusa l’opinione che il candidato di opposizione si percepisse ormai come fortemente sfavorito nella ripetizione di uno scontro che l’ha già visto soccombere ad agosto così come quattro anni fa, e nel quale Kenyatta conta ora anche su una fresca maggioranza in entrambi i rami del parlamento. La mossa era forse volta ad avviare un qualche tipo di negoziato, ma non ha per ora dato frutti. Il nome di Odinga resta comunque sulle schede.

Fin da principio, la storica decisione della Corte Suprema keniota ha sollevato numerose questioni, e qui possiamo delinearne almeno tre. La prima riguarda lo “scostamento accettabile”, per paesi con esperienze, risorse e infrastrutture di voto limitate, rispetto ad un processo elettorale ideale e privo di difetti. Se l’idea che si possa adottare un metro di valutazione un po’ più flessibile di quanto non avverrebbe nelle democrazie avanzate è probabilmente condivisa dai più – i principali osservatori internazionali avevano riconosciuto la sostanziale integrità del voto – è tutt’altro che ovvio quanto questo metro debba o possa essere flessibile. Quale è il punto esatto in cui le mancanze del procedimento elettorale non sono più accettabili? Non solo. Dal momento che il voto viene replicato dopo breve tempo nello stesso contesto – con le stesse risorse materiali e umane, seppur con un modesto bagaglio di esperienza aggiuntivo – perché non dovrebbero presentarsi problemi sostanzialmente analoghi?

La seconda questione è per certi aspetti legata alla prima. La decisione della Corte impone ad un paese che vive con particolare nervosismo l’avvicinarsi di ogni appuntamento elettorale di ripetere una seconda volta la camminata sui carboni ardenti subito dopo averla fatta con relativo successo – almeno sul piano delle violenze a sfondo etnico, abbastanza contenute in agosto (almeno 37 persone sono comunque rimaste vittime degli scontri post-voto). Per dare idea di quanto siano palpabili le tensioni re-innescate dalla nuova fase elettorale – un clima che sfiora il “si salvi chi può” – si consideri solo che il contestato presidente della Commissione elettorale ha chiesto tre settimane di vacanze a decorrere da tre giorni prima del voto.

La terza questione, infine, riguarda come la decisione della Corte Suprema la collochi in una posizione paradossale. Il suo intervento – senza precedenti nel continente, come già detto – è stato comprensibilmente celebrato dagli osservatori come un passaggio positivo nello sviluppo democratico del Kenya e anche del continente, in un’area in cui le autorità giudiziarie sono spesso troppo deboli e poco indipendenti dall’esecutivo. Eppure proprio questa decisione coraggiosa rischia di minare l’indipendenza dei giudici, se è vero che il presidente Kenyatta non ha perso tempo a chiarire che affronterà in maniera risoluta la questione una volta rieletto. 

Se in agosto vi era una ragionevole incertezza sull’esito del voto in Kenya, questa non si percepisce pressoché più. Non sono molti a credere che a Kenyatta e al suo Jubilee Party possa sfuggire la riconferma. Quello che resta ben più incerta è come questo avverrà e quale strada il paese si stia avviando a percorrere. 

 

Giovanni Carbone, Head ISPI African Programme

 

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Giovanni Carbone
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