Il 22 marzo scorso si è dimesso il premier libanese Najib Mikati, dopo quasi due anni d’incarico. Le dimissioni avvengono a pochi mesi dalle elezioni parlamentari di giugno e nel bel mezzo di una delle fasi più delicate della storia recente libanese, con il vicino – ed ex occupante – siriano sconvolto da una feroce guerra civile. La consapevolezza dei rischi destabilizzanti che corre il piccolo paese dei cedri ha portato le forze politiche a trovare rapidamente un nuovo nome di compromesso: Tammam Salam, membro di una delle più antiche e prominenti famiglie sunnite di Beirut. La carica di premier ritorna quindi nella capitale, dopo essere stata nelle mani prima della dinastia Hariri di Sidone e poi di Najib Mikati, originario della città di Tripoli, nel nord del paese. Come si è arrivati a questa nuova crisi di governo a due anni da quella che portò alle dimissioni Saad Hariri? Cosa dobbiamo aspettarci dal nuovo esecutivo di Tammam Salam?
Anche se il governo Mikati è ufficialmente caduto per il rifiuto di Hezbollah di prolungare l’incarico del leader delle forze di sicurezza Ashraf Rifi – molto amato dalla comunità sunnita, ma inviso a Hezbollah a causa della sua “scarsa malleabilità” – sono stati molti i fattori che negli ultimi mesi hanno contribuito a compromettere la stabilità dell’esecutivo.
Innanzi tutto, lo scoppio della Primavera araba e, in particolare, l’inizio del conflitto siriano hanno cambiato di molto le carte in tavola rispetto all’inizio del 2011. Con le difficoltà dell’Iran e la guerra in Siria, Hezbollah, il fulcro della coalizione “8 marzo ” che sosteneva il governo Mikati, si è trovato improvvisamente a dover ripiegare su una posizione difensiva, dopo aver giocato nei mesi precedenti il ruolo di dominatore indiscusso della politica interna libanese. Per evitare un’estensione del conflitto siriano al Libano in un momento nel quale si sarebbero trovati in una posizione di debolezza, i leader di Hezbollah hanno perciò imposto all’esecutivo una politica detta di “dissociazione”: Mikati non avrebbe dovuto esprimere alcun supporto per nessuna delle parti coinvolte nel conflitto. Mentre il governo non prendeva alcuna posizione ufficiale e migliaia di rifugiati siriani – tra cui molti combattenti – si riversavano in Libano, Hezbollah e Futuro – la principale formazione politica sunnita avversaria di Hezbollah guidata da Saad Hariri, figlio di Rafiq, il premier assassinato nel 2005 – si davano da fare per fornire aiuto militare e finanziario rispettivamente al regime di Assad e ai ribelli.
Il doppio binario della politica libanese ha però portato inevitabilmente a un costante aumento delle tensioni, sfociate sempre più spesso in scontri e omicidi soprattutto nella città di Tripoli, e culminando nell’attentato che a fine 2012 ha ucciso Wissam al-Hassan – uno dei leader principali delle forze di sicurezza vicino a Hariri – nell’esplosione di una autobomba nel centro di Beirut. Agli effetti violenti del conflitto siriano, si sono inoltre aggiunte in questi mesi le forti proteste di molte categorie lavorative – soprattutto pubbliche – per il continuo aumento dei costi dei servizi e i mancati aumenti degli stipendi provocati dalla crisi economica in cui versa il paese.
Intanto, con l’avvicinarsi dell’appuntamento alle urne di giugno, si è fatta sempre più rovente la questione della nuova legge elettorale che dovrebbe sostituire quella attualmente in vigore, risalente al 1969 e non più corrispondente all’attuale distribuzione demografica del paese. In questa delicata partita Hezbollah ha saputo giocare bene le sue carte. Dopo che le forze della coalizione “14 marzo” guidata da Hariri avevano già deciso di proporre una legge basata sulla suddivisione del paese in 50 distretti su base non settaria, la coalizione guidata da Hezbollah ha deciso di presentare una legge, la cosiddetta “Orthodox Gathering”, la quale prevede che l’intero paese venga considerato come un singolo distretto elettorale, permettendo quindi a ogni setta di scegliere i suoi rappresentanti con un sistema proporzionale. Mentre la prima proposta avrebbe probabilmente garantito la vittoria a Saad Hariri e ai suoi alleati – oltre ad appannare l’impostazione settaria della politica libanese – la seconda comporterebbe con ogni probabilità la vittoria della coalizione “8 marzo”. Soprattutto essa garantirebbe un’enorme rappresentanza alla minoranza cristiana, che conquisterebbe quasi metà dei rappresentanti parlamentari. Inevitabilmente, la legge proposta da “8 marzo” ha provocato una spaccatura nella coalizione avversaria dopo che la componente cristiana di “14 marzo”, capitanata da Samir Geagea e Michel Gemayel, ha deciso di appoggiarla a discapito della proposta concordata con gli alleati. La minoranza cristiana – un tempo il gruppo religioso dominante del paese – è infatti da anni politicamente divisa tra le due coalizioni. Con Hezbollah è schierato il Libero Fronte Patriottico guidato dall’ex generale maronita Michel Aoun, considerato l’architetto dell’“Orthodox Gathering”. Con la caduta del governo, però, difficilmente la nuova legge potrà completare l’iter parlamentare prima delle elezioni di giugno. È possibile quindi che la battaglia politica si estenda fino a comportare un posticipo delle elezioni che potrebbe risultare pericolosamente destabilizzante e spingere lo stallo politico sull’orlo del confronto armato.
Alla selezione del successore, avvenuta molto velocemente per le normali tempistiche libanesi, è concorsa soprattutto la consapevolezza di tali rischi. Il presidente della Repubblica Michel Suleyman è intervenuto immediatamente per la ricerca di un compromesso sia con le forze politiche locali attraverso il coinvolgimento di entrambe le coalizioni rivali, sia con le forze regionali tradizionalmente coinvolte nella politica libanese, come l’Arabia Saudita. Il compromesso raggiunto sul nome di Tammam Salam, figura rispettata ma di secondo piano, sembra però difficilmente destinato a far nascere un esecutivo energico, visto anche il poco tempo che il nuovo premier ha a sua disposizione. È probabile che esso si limiterà alla gestione degli affari correnti, cercando soluzioni temporanee alle questioni calde come il conflitto siriano e la legge elettorale, alle quali difficilmente si potrà dare una soluzione definitiva prima delle elezioni.
A meno di un rinvio dell’appuntamento elettorale, Salam dovrà quindi limitarsi a tenere dritta la barra della piccola nave libanese fino a giugno nel mezzo alle tempeste che investono la regione. Difficilmente potrà far meglio di Mikati. Le conseguenze, però, potrebbero essere drammatiche se dovesse fare peggio.