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Commentary

Il lifting della NATO

Massimo De Leonardis
07 luglio 2016

Parafrasando una famosa frase di Dean Acheson a proposito della Gran Bretagna, si potrebbe dire che dall’inizio degli anni Novanta la NATO ha perso un nemico e non ha ancora trovato un ruolo. Dissolti il Patto di Varsavia e la stessa Urss, la NATO non è certo rimasta inattiva. La guerra civile in Bosnia Erzegovina, dove avevano fallito l’Onu e l’Ue, fu un test dell’efficacia dell’Alleanza come strumento per la soluzione delle crisi. Rispetto al compito della difesa del territorio degli stati membri da un attacco esterno in base all’art. 5, ipotesi ormai irrealistica, acquistava preminenza il compito di stabilizzazione politico-militare, poiché l’art. 4 consente di discutere di qualunque problema sia ritenuto importante per la sicurezza. Se vi era il consenso, si poteva agire, varcando il limite del “fuori area”, che era stato insuperabile durante tutta la Guerra fredda: «NATO will go out of area or will go out of business» recitava una fortunata formula degli anni Novanta. La decisione di intervenire in Afghanistan con la missione Isaf, la più importante nella storia dell’Alleanza, fece cadere completamente i limiti geografici.

Intanto la NATO aveva sperimentato l’intervento a scopi “umanitari” (almeno come motivazione ufficiale), in Kosovo nel 1999; assai discutibile da molti punti di vista, esso ha lasciato una situazione non del tutto risolta ma comunque invidiabile rispetto al caos provocato dall’intervento in Libia nel 2011. En passant si può rilevare che l’attacco alla Serbia avvenne senza mandato dell’ONU, esplicitamente ritenuto non necessario, mentre quello in Libia l’ha avuto, peraltro interpretandolo in maniera molto arbitraria.

L’intervento in Kosovo fu gravido di conseguenze per gli sviluppi futuri, poiché evidenziò il grande divario militare tra gli Stati Uniti ed i loro alleati (a parte i britannici); gli americani trassero dal conflitto la lezione di eccessive interferenze europee nella condotta delle operazioni e decisero di agire in Afghanistan prescindendo dalla NATO, alla quale dovettero poi però ricorrere nella fase di stabilizzazione. La missione Isaf è stata travagliata da ricorrenti polemiche sui caveat nazionali nelle regole d’ingaggio: alcuni paesi permettevano ai propri militari di dare attivamente la caccia ai guerriglieri, altri consentivano solo di difendersi se attaccati. Washington ha continuato a chiedere un impegno più forte degli alleati europei, poi Obama ha però imboccato la exit strategy. Dopo più di un decennio di enfasi sulla NATO deployed out-of-area e sulla necessità di combattere il terrorismo nelle sue basi oltremare, suonava la ritirata e si riscopriva il core task dell’art. 5, più tranquillizzante e meno impegnativo in termini di costi umani (ed anche economici). Il vertice di Newport del settembre 2014 segnò il “ritorno a casa”. Delle due crisi all’ordine del giorno, quella dell’Ucraina e la rinnovata minaccia del terrorismo alle porte e all’interno dell’Europa, la NATO come organizzazione decise di occuparsi solo della prima.

Nel 1995 l’allora Segretario generale della NATO, Willy Claes, fu costretto a rimangiarsi questa sua preveggente affermazione: «il fondamentalismo islamico era ora una minaccia per l’Alleanza altrettanto grande di quella che era stato il comunismo». Come una vecchia signora che si fa un lifting per ritrovare la giovinezza perduta, la NATO riscopre invece la preminenza della minaccia russa, dimenticando che Mosca non è più una minaccia globale, ma al massimo una sfida regionale in Europa e soprattutto un partner necessario nella lotta al terrorismo islamico. Un aspetto va considerato: la bulimia della NATO nell’includere nuovi membri. Se l’allargamento dell’Alleanza è stato certamente fino ad un certo punto un fattore di stabilizzazione, è poi diventato un motivo di instabilità, quando ha spinto, o cercato sempre più di spingere, le sue frontiere vicino alla Russia. Qualche autorevole voce contesta tale impostazione. Il ministro degli Esteri tedesco, Frank-Walter Steinmeier, a proposito delle manovre militari della NATO in Polonia e nei paesi baltici si è così espresso: «la sola cosa che non dovremmo fare ora è infiammare la situazione con un rumoroso tintinnio di sciabole e toni guerrafondai […] Chiunque pensi che una parata simbolica di carri armati al confine orientale dell’Alleanza porterà sicurezza ha torto […] Faremmo bene a non fornire un pretesto per il rinnovo di un vecchio scontro».

È molto improbabile che il vertice di Varsavia cambi la situazione. Come in una partita, il “fattore campo” conta e oggi nella NATO prevale la visione strategica dei paesi nordici, che, comprensibilmente dal loro punto di vista, vedono nella Russia il pericolo maggiore. Ciò è però anti-storico e comunque rivela la profonda divergenza di prospettive strategiche all’interno della NATO. Naturalmente il futuro dell’Alleanza dipenderà molto dal nuovo presidente americano. Hillary Clinton perpetuerebbe la politica di Obama: mantenere un piede in Europa agitando lo spettro della minaccia russa. Donald Trump ha sposato la posizione unilateralista «America First», ha dichiarato la NATO «obsoleta», ha ammonito che gli Stati Uniti non pagheranno più la maggior parte dei suoi costi (posizione peraltro condivisa da Obama) e non antagonizza il Presidente russo Putin, del quale ritiene necessaria la collaborazione contro il terrorismo islamico. La sua elezione sarebbe uno shock. Già con Obama, era completamente tramontata l’idea avanzata nel 2006 dall’ex primo ministro spagnolo Aznar e condivisa allora da molti americani, che la NATO potesse diventare un’alleanza globale per la libertà e per la difesa dei valori e degli interessi dell’Occidente. Un’idea che si ricollegava alle origini dell’Alleanza, quando nel 1948 il ministro degli Esteri Ernest Bevin vagheggiava una «federazione spirituale dell’Occidente».

In conclusione, una riflessione storica di lungo periodo. Proprio cinquant’anni fa, il Comitato del “Tre Saggi”, fu incaricato di studiare la possibilità di fare della NATO qualcosa di più di una semplice alleanza militare, costruendo una vera e propria “comunità atlantica”, dando attuazione al preambolo e all’art. 2 del Trattato del 1949. Il progetto fallì allora con una NATO di 15 stati ed è oggi del tutto irrealistico con 29 membri con priorità strategiche diverse. Nessuno mette in dubbio la sopravvivenza della NATO e che essa sia tuttora la più efficace tra le alleanze e organizzazioni internazionali. Durante la Guerra fredda si guadagnò un posto di rilievo nei libri di storia, oggi è però difficile attribuirle un ruolo altrettanto fondamentale.

 

 

Massimo De Leonardis, presidente della International Commission of Military History. Professore di Storia delle relazioni internazionali all’Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano.

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Massimo De Leonardis
Università Cattolica del Sacro Cuore

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