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Commentary

Il mosaico etnico dell’Etiopia: le tensioni non si sciolgono

Camillo Casola
20 settembre 2019

A poco più di un anno dalla nomina di Abiy Ahmed alla guida del governo, l’Etiopia sta attraversando una fase di profondi cambiamenti politici. Se la leadership di Abiy ha garantito un miglioramento della governance democratica, favorito la distensione delle relazioni con Asmara e posto le basi per un’apertura del sistema economico, l’instabilità interna rischia di condizionare le prospettive di sviluppo di Addis Abeba. Tensioni comunitarie e violenze politiche interessano diverse aree del paese, aggravando linee di frattura sociali ed etniche.

Con una popolazione di più di 100 milioni di abitanti, l’Etiopia si caratterizza per la presenza di un articolato mosaico etno-nazionale e linguistico composto da circa 80 gruppi etnici. La struttura istituzionale del paese riflette la centralità della componente etnica sugli equilibri politici e sociali. Nel 1991, la lotta armata condotta dal Tigray People’s Liberation Front (TPLF) di Meles Zenawi – alla guida di una coalizione di movimenti costituiti su basi etniche, l’Ethiopian People's Revolutionary Democratic Front (EPRDF)[1] – si concluse con la destituzione di Menghistu Hailemariam. La caduta del regime del Derg – il nome con cui si identificava il consiglio militare che deteneva il potere – pose le basi per un profondo rinnovamento dello stato, fino ad allora fortemente centralizzato. L’etnicità fu assunta a elemento politico fondante del sistema, e le rivendicazioni dei diversi gruppi etnici furono riassunte in una comune agenda politica. Fu avviato un processo di decostruzione della narrazione pan-etiopica – e amhara-centrica – su cui si fondava l’idea dello stato-nazione Etiopia, e le relazioni interetniche furono istituzionalizzate entro la cornice giuridica di una “federazione volontaria”. Tale articolazione si tradusse nell’adozione di una Costituzione federale, nel dicembre del 1994: i confini dei nove stati regionali che componevano la federazione furono tracciati seguendo linee etno-linguistiche, nell’ambito di un processo di “territorializzazione dell’etnicità” che, tuttavia, non rifletteva adeguatamente la diversità che si replicava all’interno di questi stessi territori. A partire dalla fine degli anni Novanta, la netta svolta autoritaria del regime di Meles risultò funzionale a rafforzare il dominio della minoranza tigrina sulle istituzioni politiche e militari del paese.

Il contesto politico-istituzionale etiopico è, dunque, caratterizzato dalla centralità della dimensione etnica nella rivendicazione dei diritti di accesso alla terra, al lavoro e alla rappresentanza politica delle comunità locali. I conflitti che oppongono alcune collettività territoriali e le ragioni di scontro con le autorità statali contribuiscono a disvelare elementi di fragilità del modello etiopico: dalla problematicità di confini tracciati lungo linee etno-nazionali ai deficit di legittimità dei partiti cooptati nella coalizione di governo, incapaci di rappresentare le istanze delle popolazioni di riferimento.

Nello stato regionale di Oromia, dinamiche di conflitto locale per l’accesso alle risorse naturali tra comunità autoctone e gruppi alloctoni si comprendono solo guardando alle logiche di esclusione di un assetto politico fondato su un principio di autodeterminazione etnica. In seguito alla morte di Meles, nel 2012, il successore Hailemariam Desalegn si fece garante di una sostanziale continuità nelle pratiche di governo e negli equilibri politici etiopici. Nel 2015, i progetti di espansione del territorio della capitale Addis Abeba (Addis Ababa Master Plan) su alcune terre confinanti occupate da contadini oromo – il principale gruppo etnico del paese, cui fa capo il 35% circa della popolazione etiopica – diedero origine a manifestazioni di protesta e scontri contro le autorità statali. Tra il 2015 e il 2016 la repressione governativa causò l’uccisione di un numero imprecisato di dimostranti, probabilmente compreso tra 500 e 1.000. La scarsa rappresentatività delle istanze etniche da parte dell’Oromo Peoples’ Democratic Organization (OPDO), membro della coalizione di governo e dunque in qualche modo responsabile delle politiche repressive del regime, rappresentò una ragione di legittimità ulteriore per alcuni gruppi politico-militari etno-nazionalistici attivi nella regione.

Le dimissioni improvvise del primo ministro seguirono lo scoppio di nuove ondate di protesta per il riconoscimento dei diritti sulla terra e per una migliore rappresentanza politica a livello nazionale. L’adozione di misure emergenziali portò all’arresto di oltre mille persone, alimentando ulteriormente il caos. In tale contesto, l’ascesa di Abiy Ahmed, membro di spicco della OPDO, segnò un mutamento politico di rilievo. La nomina di un rappresentante oromo alla guida del governo di Etiopia sembrò porre le basi per una rottura degli equilibri costituiti. Ed effettivamente, tra le prime misure adottate, Abiy mise fine allo stato di emergenza, decise la liberazione di numerosi prigionieri politici, annunciò aperture del sistema politico ed economico, e avviò un processo di riconciliazione con gli attori armati attivi nel paese che avrebbe condotto alla firma di accordi di pace con l’Oromo Liberation Front (OLF) e l’Ogaden National Liberation Front (ONLF).

Le aperture politiche di Abiy non sono state tuttavia sufficienti a rispondere alle istanze dei gruppi oromo, e anzi, in alcuni casi, la parziale liberalizzazione dello spazio pubblico e l’allentamento del controllo degli apparati militari e securitari sembra aver dato nuova linfa a rivendicazioni socio-politiche e tensioni inter-etniche. È il caso, ad esempio, delle violenze legate all’accesso alla terra e alle risorse tra gruppi di agricoltori guji e gedeo nel Guji occidentale, in Oromia, tra aprile e luglio 2018. Scontri comunitari di natura analoga hanno interessato, nello stesso anno, dieci diverse aree del paese, inclusa la regione somala e lo stato regionale delle nazioni, delle nazionalità e dei popoli del sud, dove attivisti politici espressione del principale gruppo etnico locale, i sidama, rivendicano l’istituzione di un nuovo stato etnicamente omogeneo. Aggravate da una crescente pressione demografica e da livelli di disoccupazione particolarmente elevati, questo insieme di tensioni e dinamiche ha prodotto una delle più gravi crisi umanitarie nel continente, con un milione di individui costretti a fuggire dalle loro case.

Al tempo stesso, l’ascesa di Abiy ha fornito ad altri attori il pretesto per una mobilitazione politica. In particolare, nello stato di Amhara, manifestazioni violente sono state fomentate da personalità politiche che, con la fine del regime di Zenawi e la cessazione del dominio tigrino, contavano su un esito diverso rispetto all’ascesa di un esponente oromo.

Il malcontento di alcuni gruppi di interesse amhara, che paventavano il rischio di un rafforzamento degli oromo a discapito dell’etnia ritenuta storicamente dominante in Etiopia, ha dato luogo a un tentativo di golpe il 23 giugno 2019. Il governatore dell’Amhara, Ambachew Mekonnen, è stato aggredito e ucciso insieme a un suo stretto collaboratore a Bahir Dar, capitale dello stato regionale, mentre ad Addis Abeba un alto ufficiale militare, Seare Mekonnen, veniva assassinato nella sua abitazione. A pianificare il fallito golpe è stato Asaminew Tsige, militare di etnia amhara, che aveva scontato un periodo di detenzione durato dieci anni in ragione della sua partecipazione a un tentativo insurrezionale, prima di essere liberato con un provvedimento di amnistia voluto proprio da Abiy. Nominato alla carica di capo della sicurezza regionale su iniziativa dello stesso primo ministro, Asaminew aveva fatto crescente ricorso a una retorica ultra-nazionalista in occasioni pubbliche ed è sospettato di aver promosso la costituzione di milizie amhara in funzione anti-oromo. Nei giorni successivi all’attacco, sono stati arrestati oltre 200 individui ritenuti coinvolti.

Le questioni etniche e l’instabilità interna associata alle rivendicazioni politico-territoriali delle diverse collettività locali definiscono i contorni delle complesse sfide che Abiy si trova ad affrontare in vista delle elezioni del 2020. La spinta riformatrice del giovane leader etiopico si è rivelata sinora inefficace a offrire una soluzione politica al problema, e anzi lo spazio e in parte le ragioni di conflittualità etno-comunitaria sembrano aver ricevuto impulso nel corso dell’ultimo anno. La sostenibilità stessa del modello politico-istituzionale etiopico appare in discussione: la trasformazione del sistema in direzione di una maggiore apertura democratica richiederà di ripensare la struttura della federazione, depotenziando la dimensione etnica. Accanto a ciò, dovrà essere garantita una adeguata capacità di regolazione di conflitti e controversie da parte dello stato, nel solco di una più equa distribuzione di potere, risorse e dividendi della crescita economica etiopica.

 

[1] L’EPRDF è attualmente composto da quattro differenti movimenti politici: Tigray People's Liberation Front (TPLF), Amhara Democratic Party (ADP), Oromo Democratic Party (ODP) e Southern Ethiopian People's Democratic Movement (SEPDM).

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