“Stallo” è la parola con cui più spesso sentiamo descrivere la situazione del conflitto siriano. Come riportato pochi giorni fa nell’editoriale di Borzou Daragahi sul Financial Times, “nessuna fine appare all’orizzonte” per questa crisi entrata ormai nel suo quarto anno. Ciò però non significa che nulla di nuovo stia accadendo, e che nuovi sviluppi non possano cambiare lentamente gli equilibri sul campo.
L’evento più importante delle ultime settimane è la caduta di Yabroud, villaggio posto lungo il confine libanese, che era rimasto l’ultima roccaforte ribelle nella regione di Qalamoun. Quest’ultima, ora totalmente nelle mani del regime, era importante perché costituiva il corridoio dal quale uomini e rifornimenti provenienti dal Libano passavano per giungere alle formazioni ribelli operative nella regione di Damasco. Le formazioni attive nei dintorni della capitale – perlopiù legate ai gruppi islamisti del Fronte Islamico – si trovano ora tagliate fuori da ogni valido canale di rifornimento, una situazione che alla lunga potrebbe obbligare i ribelli a ridurre significativamente le operazioni militari nell’area
Nel nord, intanto, gli scontri che vedono contrapposti i fondamentalisti dell’ISIS (Islamic State in Iraq and Syria) e le altre formazioni ribelli hanno già mietuto oltre 3000 vittime in poco più di due mesi. Gli stessi ribelli contrapposti all’ISIS rimangono fortemente divisi al loro interno in fazioni che vanno da Jabhat al-Nusra – il braccio ufficiale di al-Qaida in Siria – alle forze laiche del Free Syrian Army. È probabile che dopo aver rioccupato la regione di Qalamoun e rafforzato la presa sulla capitale, il regime decida ora di sferrare una nuova offensiva nel nord – soprattutto ad Aleppo, la seconda città del paese parzialmente occupata dai ribelli dal 2012 – approfittando della crescente frammentazione tra le fila dell’opposizione. Nonostante il regime abbia messo a segno alcune offensive strategiche negli ultimi mesi – rese possibili soprattutto dalle lotte intestine fra gli avversari – è però improbabile che esso sia in grado di sferrare un colpo definitivo alle roccaforti ribelli del nord, un’area troppo vasta da rioccupare per l’esercito di Assad decimato da migliaia di perdite e defezioni e sempre più dipendente dal supporto dell’Hezbollah libanese e dei gruppi paramilitari (formati sia da cittadini siriani sia da fondamentalisti sciiti provenienti da Iran e Iraq). Nel frattempo rapporti di intelligence parlano sempre più insistentemente di una nuova offensiva ribelle che si starebbe preparando nel sud del paese, nei pressi di Daraa’ – la città dalla quale è partita la ribellione siriana nel 2011 – vicino al confine giordano. La nuova offensiva avrebbe il supporto sia degli Stati Uniti sia dell’Arabia Saudita, diventata il principale sponsor regionale dei ribelli dopo il parziale disimpegno di Turchia e Qatar.
Gli sponsor internazionali – occidentali e sauditi in testa – ci contano molto, ma dubbi significativi permangono sull’effettiva riuscita della nuova offensiva meridionale e, in generale, sulla possibilità che qualunque delle due parti a questo punto possa essere in grado di sferrare un colpo decisivo all’avversario e chiudere il conflitto.
Il regime, lo abbiamo detto, si è dimostrato solido e coeso, dotato di armamenti superiori (soprattutto aeronautica e artiglieria), e sostenuto dall’appoggio incondizionato di Iran, Hezbollah e Russia. Nonostante questo, in quattro anni non è però riuscito a trovare il bandolo della matassa di una ribellione iniziata sottotraccia e diventata improvvisamente impossibile da reprimere completamente. Ci sono zone nel nord del paese che sono al di fuori del controllo di Damasco da oltre due anni e ben poco sembrano in grado di fare i bombardamenti a tappeto e l’intervento sempre più massiccio dei sostenitori esterni.
Allo stesso modo, le profonde divisioni e il secondo fronte aperto dalle forze ribelli contro i fondamentalisti dell’ISIS sembrano aver minato definitivamente la capacità dell’opposizione di compiere ulteriori determinanti avanzate nel cuore del territorio siriano. Pesa, soprattutto, l’assenza totale di leadership dopo la disgregazione de-facto del comando congiunto che fino a sei mesi fa riuniva tutte le principali formazioni ribelli sotto l’egida del Free Syrian Army. Il tentativo saudita – portato avanti dal leader dell’intelligence di Riyadh, il principe Bandar bin Sultan – di formare una “cappello alternativo” composto da gruppi islamisti non qaidisti (il cosiddetto Fronte Islamico) si è rivelato un autogol. Non solo il Fronte si è rivelato non molto più efficace del già disorganizzato Free Syrian Army, ma esso ha dimostrato di potersi potenzialmente trasformare in un nuovo incubatore di terroristi capaci di rivoltarsi contro i loro patron sauditi in futuro, esattamente come accaduto in Afghanistan negli anni Ottanta. La preoccupazione negli ambienti sauditi è andata crescendo negli ultimi mesi portando alle voci sul possibile licenziamento di bin Sultan, poi smentito. La diplomazia saudita ha iniziato un progressivo disimpegno dal Fronte Islamico (che ha dovuto inoltre far fronte all’isolamento di alcune delle sue più importanti formazioni nella regione di Damasco dopo la vittoria lealista a Yabroud) per riposizionare il proprio sostegno su formazioni più moderate – e gradite a Washington e agli europei – come quelle che si starebbero preparando per la nuova offensiva meridionale.
I repentini cambi di linea delle potenze coinvolte, dalla Turchia agli Stati Uniti, passando per Francia, Gran Bretagna, Qatar e Arabia Saudita, hanno fin qui minato le basi di qualunque coesione tra le forze ribelli, le cui diverse anime sono state più o meno sostenute, ora dall’uno, ora dall’altro sponsor esterno in una serie di irresponsabili rimpalli e giochi di potere tra i principali protagonisti regionali e internazionali.
Oggi, tra un regime depotenziato e un’opposizione dilaniata dai conflitti interni, nessuno può prevalere e nessuno può essere sconfitto. Una soluzione politica condivisa – considerata l’unica via d’uscita realistica – è temporaneamente naufragata dopo il sostanziale fallimento di Ginevra II. Nuove conquiste, offensive e contro-offensive animano oggi il conflitto sul campo: da Damasco a Yabroud, da Aleppo a Daraa’, cambiano fronti e rapporti di forza; senza che nulla davvero cambi dopo quattro anni di tragedia siriana.