La spirale inflazionistica in Turchia continua inesorabile. A giugno l’inflazione ha conosciuto un ulteriore rialzo del 4,95% rispetto al mese precedente attestandosi al 78,62%, il livello più alto degli ultimi vent’anni, da quando cioè il Partito Giustizia e Sviluppo (Akp) del presidente Recep Tayyip Erdoğan è al governo. L’aumento maggiore si è registrato nel settore dei trasporti – +123% nell’ultimo anno su cui ha inciso l’incremento del prezzo degli idrocarburi (+22% nel solo mese di giugno) accelerato dal conflitto in Ucraina – seguito dal comparto alimentare con un +94%. Anche qui il balzo dei prezzi di grano e cereali sui mercati internazionali, conseguenza del conflitto e del blocco dell’export ucraino, ha avuto un impatto significativo in Turchia, come altrove.
Il problema cronico dell’inflazione
Diversamente da quanto sta avvenendo in molti Paesi dove le autorità monetarie stanno alzando i tassi di interesse per contrastare l’inflazione, il presidente turco, di fatto il principale artefice della linea di politica monetaria, rimane fortemente contrario a questo tipo di misura. Oltre a essere un convinto sostenitore di una poco convenzionale politica dei tassi bassi per combattere l’aumento dei prezzi, Erdoğan sa bene che una politica anti-inflazionistica comporterebbe l’adozione di misure di austerità gravide di conseguenze sul piano interno, anche in termini di sostegno politico nei confronti suoi e del suo partito, nonché la fine delle politiche espansive portate avanti fino ad oggi e che hanno fatto registrare una crescita del Pil dell’11% nel 2021 (dati Fondo Monetario Internazionale).
La crescita economica turca è continuata al 7,3% nel primo trimestre dell’anno, mentre si stima che sarà intorno al 5,6% nel periodo successivo. Tuttavia, sullo sfondo di un’inflazione galoppante e di una lira turca che continua a perdere valore – meno 23% rispetto al dollaro da inizio anno sulla scia di un -44% nel 2021 – la crescita, lontana dal produrre benefici a pioggia, si è invece tradotta in aumento del divario dei redditi all’interno del Paese. Di fronte alla continua perdita di potere d’acquisto della popolazione turca, il governo ha deciso un secondo aumento del 30%, del salario minimo, portato a 5.500 lire turche (pari a 330 dollari statunitensi) a partire dal 1° luglio, dopo il rialzo del 50% dello scorso dicembre. Tuttavia, l’adozione di misure tampone in mancanza di interventi più incisivi difficilmente potrà essere risolutiva.
Anche il piano introdotto dal governo lo scorso dicembre, dopo che il cambio tra la moneta turca e il dollaro aveva toccato il picco di 18 a 1, per proteggere i depositi in lira attraverso un sistema di compensazione delle perdite in caso di crollo della valuta nazionale è costato al Tesoro finora 1,25 miliardi di dollari di fondi pubblici e non ha portato ai risultati auspicati. Ciò ha spinto l’esecutivo a imporre una serie di restrizioni nei confronti degli esportatori e delle grandi società sull’ottenimento di prestiti in valuta forte per evitare che ne detengano quantità elevate, come misura alternativa alla riduzione del tasso d’interesse. Quest’ultimo, dietro pressioni del presidente, è stato tagliato di oltre il 5% a novembre 2021 e da allora è rimasto invariato al 14%. Resta tuttavia da vedere come tale misura verrà accolta e quale sarà la sua reale efficacia, mentre permangono perplessità tra gli operatori economici e più in generale nel Paese sulla linea economica perseguita dal governo.
Una spinta dal turismo
Inevitabilmente per uno stato fortemente dipendente dalle importazioni di energia e di materie prime, l’incremento dei prezzi sui mercati internazionali si è tradotto anche in un aumento della spesa per le importazioni, cresciuta mensilmente in media a 30 miliardi di dollari nei primi cinque mesi del 2022, e del deficit di conto corrente che da inizio anno è stato pari a 28,1 miliardi di dollari, più del doppio rispetto allo stesso periodo del 2021 (12,4 miliardi di dollari), secondo i dati dell’Economist Intelligence Unit. Le entrate dal settore turistico hanno contribuito solo in parte a mitigare quello che per la Turchia rappresenta un problema cronico. Tuttavia, non è escluso che l’aumento dei flussi di turisti nei mesi estivi possa contribuire a ridurre in maniera più significativa il deficit di conto corrente.
Il turismo è tradizionalmente una voce importante del Pil turco – contava l’11% nel 2019 – e dopo il crollo della fase pandemica nel 2020, in cui si era dimezzato al 5,1%, il trend è in netta ripresa. Nei primi cinque mesi dell’anno si è registrato un incremento di oltre il 200% degli ingressi turistici nel Paese rispetto allo stesso periodo del 2021. Secondo i dati del Ministero della Cultura e del Turismo turco, Germania, Bulgaria e Russia sono i primi tre Paesi di provenienza dei flussi turistici ed è interessante notare come al forte calo dei turisti russi (passati dal 15,53% di gennaio-maggio 2021 al 7,52% dello stesso periodo nel 2022) sia corrisposto un deciso incremento delle presenze tedesche, passate da 7,61% a 11,56% del totale.
Ankara e Riad si riavvicinano
Anche il riavvicinamento con le ricche monarchie del Golfo – Emirati Arabi Uniti prima e Arabia Saudita più di recente – avrà un impatto positivo sull’industria turistica turca. La fine del blocco dei voli verso la Turchia, decretata a giugno dal regno saudita, riapre infatti un importante canale di flussi turistici dopo tre anni di stop. Ma il turismo è solo uno degli aspetti della cooperazione economica con Riad che Ankara intende rilanciare e rafforzare sullo sfondo delle difficoltà della propria economia. La direttrice economica costituisce infatti uno dei motori principali, se non addirittura il più importante, degli sforzi della Turchia per normalizzare i rapporti diplomatici con i suoi vicini mediorientali dopo anni di tensioni e isolamento nella regione.
La recente visita del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman – il reggente de facto della monarchia degli al-Saud – in Turchia, che segue il viaggio di Erdoğan in Arabia Saudita lo scorso aprile, è stata salutata da parte turca come l’inizio di “una nuova era” nelle relazioni bilaterali, fortemente deterioratesi in seguito all’omicidio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi nel consolato saudita di Istanbul a ottobre 2018. La Turchia guarda infatti con grande favore alla ripresa dell’interscambio commerciale con il regno saudita e alla possibilità di nuovi flussi di capitali e investimenti nella sua economia. Ankara mira inoltre al raggiungimento di un accordo swap con Riad per dare sostegno alla lira turca. Tuttavia, questo non sembra essere ancora all’orizzonte, diversamente da quanto negoziato con gli Emirati Arabi Uniti (EAU) lo scorso gennaio. L’accordo swap del valore di 5 miliardi di dollari è solo un aspetto della più ampia cooperazione economica bilaterale con gli EAU rilanciata alla fine del 2021, che comprende diversi accordi anche in campo energetico, commerciale e ambientale nonché un fondo strategico emiratino per investimenti pari a 10 miliardi di dollari.
In cerca di consenso elettorale
Se dal reset con EAU e Arabia Saudita l’economia turca potrà trarre indubbi benefici, resta però da vedere se tutto ciò si tradurrà in un aumento dei consensi per Erdoğan in vista delle elezioni presidenziali e parlamentari in agenda per giugno 2023. È infatti principalmente sul nodo dell’economia che si gioca il successo del presidente nella prossima tornata elettorale, nonostante il ritrovato prestigio internazionale del leader turco sulla scia della mediazione tra Russia e Ucraina e dell’attivismo diplomatico su più fronti.