Le prossime elezioni si apprestano a costituire l’ennesimo banco di prova per la fragile democrazia irachena. Nuri al-Maliki, l’attuale primo ministro in corsa per un nuovo mandato, pare destinato a giocare un ruolo di primo piano all’interno del complesso e frammentato scenario iracheno, ma la sua rielezione è tutt’altro che scontata. In questi ultimi quattro anni il premier – al netto di un contesto regionale estremamente complesso – non è riuscito a rispettare le promesse fatte in sede di campagna elettorale e a rilanciare il processo di ricostruzione dell’Iraq post-Saddam Hussein. Soprattutto, si è dimostrato incapace di porre un freno alla ripresa della violenza interna – tornata a infiammare intere aree del paese – e di interrompere la polarizzazione del tessuto sociale lungo linee etno-religiose, palesatasi non solo nel solco della “tradizionale” faglia che divide Baghdad da Erbil, ma anche all’interno della stessa comunità araba sotto forma di una nuova fitna, che pare allontanare sempre più la componente sciita da quella sunnita.
In questo contesto, quali sono le principali forze politiche che si sfideranno alle consultazioni del prossimo 30 aprile?
In ambito sciita(1), la contesa pare essenzialmente riservata a tre formazioni principali: Dawlat al-Qanun, il Consiglio islamico dell’Iraq (Isci) e il fronte sadrista.
Dawlat al-Qanun, il partito del primo ministro al-Maliki, presenta un’agenda formalmente nazionalista e non-settaria, pur traendo gran parte del proprio sostegno dalla comunità arabo-sciita. Dopo la netta affermazione avvenuta alle elezioni provinciali del 2009, il partito ha subito una significativa quanto inaspettata battuta d’arresto alle consultazioni del 2010, vinte da Iraqiyya. Le elezioni provinciali dello scorso anno hanno riconfermato la preminenza di Dawlat al-Qanun su scala nazionale, ma hanno sottolineato la sua debolezza al di fuori delle roccaforti centro-meridionali e l’ascesa di una composita opposizione che è riuscita a sottrargli il controllo delle province-chiave di Baghdad e Bassora(2). Il Consiglio islamico, tradizionalmente guidato dalla famiglia degli al-Hakim, è emerso rapidamente come uno degli attori più importanti dell’Iraq post-Saddam, ottenendo il maggior numero di preferenze nelle votazioni di gennaio e dicembre 2005. Gli errori compiuti nei difficili anni successivi e gli stretti legami intessuti con Teheran sono stati alla base del tracollo subito dal movimento alle elezioni del 2009 e alla tutt’altro che entusiasmante performance registrata nel 2010 a livello nazionale. Negli ultimi anni, sotto la direzione di Ammar al-Hakim, l’Isci ha recuperato importanti posizioni ed è ora considerato uno dei più seri competitor di Dawlat al-Qanun, grazie anche a una rinnovata impostazione programmatica, formalmente ostile alla polarizzazione del paese su base etno-confessionale e improntata al dialogo tra le sue diverse componenti. Nonostante tale ripresa, Dawlat al-Qanum sembra ancora godere di un peso specifico ben superiore a quello detenuto dal Consiglio islamico, le cui speranze parrebbero risiedere principalmente nella formazione di un tanto vociferato, quanto ancora tutt’altro che scontato, asse con al-Mutahidoun e il movimento sadrista. Quest’ultimo costituisce uno dei punti di riferimento più importanti per gli strati più poveri della comunità sciita irachena ed è considerato una delle maggiori incognite delle prossime elezioni. La scelta del febbraio scorso del suo leader, Muqtada al-Sadr, di abbandonare l’arena politica ha rappresentato un vero e proprio fulmine a ciel sereno per gli osservatori del sistema iracheno, che nel giovane religioso e nel suo partito al-Ahrar vedevano un naturale contrappeso alle ambizioni del primo ministro al-Maliki(3). Pur non ritrattando in toto le proprie dichiarazioni, nei giorni seguenti al-Sadr ha corretto leggermente il tiro, invitando i propri sostenitori a partecipare attivamente alle votazioni. Anche senza l’apporto (quantomeno in pubblico) del proprio esponente di punta, il movimento sadrista continua a godere di un ampio sostegno e pare destinato a rimanere un attore di primo piano del sistema politico iracheno.
In ambito sunnita, invece, i giochi sembrano ristretti a tre formazioni: al-Mutahidoun e quanto rimane di Iraqiyya e di Arabiyya. In questo contesto, al-Mutahidoun – la formazione guidata dal portavoce del parlamento iracheno, Usama al-Nujaifi, che ha ben figurato alle provinciali del 2013 – viene generalmente considerato il primo “partito arabo sunnita” del paese, nonostante una linea programmatica nazionalista e anti-settaria. Esso sembra essere riuscito a colmare, almeno parzialmente, il vuoto lasciato dal collasso di Iraqiyya, che alle scorse politiche aveva ottenuto il maggior numero di voti su scala nazionale e che pare invece destinata a giocare quest’anno un ruolo marginale. Il movimento del vice primo ministro Saleh Mutlaq, Arabiyya, storicamente uno degli attori politici di riferimento della comunità sunnita, rischia invece di pagare la posizione ondivaga del proprio leader, che lo scorso anno si è riavvicinato ad al-Maliki dopo essere stato a un passo dalla definitiva rottura. Questi partiti dovranno, però, fare i conti con la crescente ostilità maturata dalla popolazione nei confronti di Baghdad, che ha portato centinaia di migliaia di persone a protestare ininterrottamente per oltre un anno contro un establishment considerato illegittimo e inerentemente ostile. In quest’ottica Karama, il partito fondato da Khamis Khanjar e schierato su posizioni vicine a quelle dei manifestanti, potrebbe divenire – almeno in ambito arabo-sunnita – il vero e proprio outsider della competizione e ritagliarsi una posizione tutt’altro che marginale.
A nord le ultime votazioni hanno invece profondamente ridefinito gli equilibri interni del governo regionale del Kurdistan (Krg), sancendo la primazia del Partito democratico (Kdp), l’ascesa di Gorran e la sconfitta dell’Unione patriottica (Puk). Questi sviluppi hanno aperto la strada a cambiamenti di medio-lungo periodo che rischiano di alterare profondamente le dinamiche del “fronte curdo”, che per lunghi anni aveva di fatto giocato il ruolo di ago della bilancia (o di kingmaker) del sistema iracheno. La netta affermazione fatta registrare dal Kdp alle elezioni regionali del 2013 e la contemporanea sconfitta del Puk hanno interrotto il pluridecennale codominio esercitato dalle due formazioni, avviando una nuova fase politica dai contorni tutt’altro che definiti (basti pensare che, a oltre sette mesi di distanza, la regione non è ancora riuscita ad esprimere un nuovo esecutivo). Il Kdp, guidato dal clan Barzani, è riuscito a intrecciare negli ultimi anni solide relazioni con Ankara e a beneficiare dello sviluppo economico che ha interessato il Krg(4). I rapporti con Baghdad rimangono, invece, estremamente complessi, come dimostrato dalle tutt’altro che isolate schermaglie tra Nuri al-Maliki e Mustafa Barzani. A far da contraltare all’ascesa del Kdp vi è invece la difficile situazione del Puk, alle prese negli ultimi anni con una serie di rovesci che hanno finito col ridurne sensibilmente il peso specifico all’interno del paese. La malattia che ha colpito il leader storico dell’organizzazione, il presidente iracheno Jalal Talabani, e le divisioni sulla linea politica da adottare hanno acuito le fratture interne al movimento, favorendo la nascita – e la successiva ascesa – di Gorran. Questi, fondato da un ex dirigente del Puk, Nashirwan Mustafa, è riuscito a ritagliarsi uno spazio di manovra crescente, che gli ha permesso di divenire nel 2013 la seconda forza politica della regione autonoma del Kurdistan. Il “movimento per il cambiamento” presenta un’agenda politica votata alla lotta alla corruzione e al nepotismo e punta a scalzare gli equilibri tradizionali del sistema politico del Krg.
Alla luce delle dinamiche delineate, il risultato delle prossime elezioni appare ancora fortemente in bilico: se da un lato al-Maliki può contare sul peso specifico del proprio partito, dall’altro egli deve fare i conti con un’opposizione agguerrita, seppur divisa e priva di un’agenda comune. In un caso o nell’altro, l’Iraq si appresta a vivere una nuova stagione di passione segnata da sfide che potranno essere affrontate solo dando vita a un vero processo di riconciliazione in grado di evitare la pericolosa logica del gioco a somma zero che ha dominato gli equilibri del paese negli ultimi anni.
1. La scelta di suddividere il panorama politico iracheno in accordo con le comunità etno-religiose di riferimento delle singole formazioni intende semplificare la lettura del complesso scenario locale, ma non implica una concezione del sistema iracheno basata sulla netta separazione tra mondo arabo-sciita, arabo-sunnita e curdo. Nonostante la profondità delle fratture esistenti, la significativa differenziazione delle comunità del paese e la natura “mista” di ampli strati di popolazione e territori iracheni (Baghdad, Bassora e Kirkuk in primis) costituiscono ancora un importante contrappeso in grado di limitare, almeno parzialmente, i danni causati da un processo di polarizzazione interna tornato a colpire con violenza il “nuovo Iraq”.
2. Si veda, Andrea Plebani, Le elezioni provinciali irachene tra instabilità interna e crisi regionale, ISPI commentary, 16 maggio 2013.
3. Si veda Andrea Plebani, Muqtada al-Sadr and his February 2014 declarations. Political disengagement or simple repositioning?, ISPI analysis, n. 24, aprile 2014.
4. Michael Gunter, "Economic opportunities in Iraqi Kurdistan", Middle East Policy Council, vol. 18 n. 2, 2011.