Per comprendere a fondo il significato che il Pontefice vuole dare al viaggio a Sarajevo che compirà il prossimo 6 giugno (dodici ore in cui terrà cinque discorsi e un’omelia), è sufficiente leggere i nomi di quanti comporranno il ristretto seguito papale. Tra i porporati di curia, infatti, spicca la presenza dei cardinali Kurt Koch e Jean-Louis Tauran. Il primo, svizzero, è il presidente del Pontificio consiglio per la Promozione dell’unità dei cristiani; il secondo, diplomatico francese, guida il Pontificio consiglio per la promozione del dialogo interreligioso. Ecumenismo e dialogo con le altre fedi sono dunque i cardini su cui ruoterà la giornata di Francesco in terra bosniaca. Il calendario degli appuntamenti conferma tale chiave di lettura, che non a caso avrà come momento culminante l’incontro ecumenico ed interreligioso ospitato, nel pomeriggio, al Centro internazionale studentesco francescano. Sarajevo incarna la meta ideale «per parlare di guerra, pace, riconciliazione e dialogo», notava la scorsa settimana il direttore della sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi, presentando il viaggio. Mentre nel Vicino e Medio Oriente il dialogo fatica a svilupparsi e a procedere in modo spedito – stretto com’è tra la guerra intestina all’Islam combattuta da sunniti e sciiti e l’avanzata del cosiddetto Califfato che miete migliaia di vittime tra le minoranze per lo più cristiane e yazide – la “Gerusalemme d’Europa” può rappresentare la chiave di volta e la sede più opportuna per rilanciare i rapporti tra le tre grandi fedi monoteiste. La complessità che sottende all’organizzazione istituzionale locale – la presidenza tripartita con i suoi membri che si alternano a rotazione – rispecchia l’altrettanto composita ripartizione demografica, etnica e religiosa del Paese: dei 3,8 milioni di abitanti, il 40% si professa musulmano, il 31% serbo-ortodosso, il 15% croato-cattolico. Il resto si divide tra altre confessioni ed etnie. Una stratificazione che è stata all’origine di alcuni tra i più cruenti massacri della storia europea, e non è un caso che Francesco abbia chiesto e ottenuto di poter effettuare gli spostamenti in città a bordo della papamobile scoperta, così da poter vedere i tanti cimiteri sorti durante la guerra civile scoppiata nel 1992, scavati anche nei giardini pubblici.
C’è un aspetto che poco risalta dalle cronache giornalistiche, ma che è ben noto al Pontefice. Ne ha scritto lo storico Roberto Morozzo Della Rocca: «Oggi, conformemente agli accordi di pace di Dayton del 1995, la Bosnia è uno stato unico che si compone di due entità» e in una di queste, la Federazione croato-musulmana, si è originato un esodo dei cattolici che, discriminati, emigrano. Ricevendo in udienza, lo scorso marzo, i sei vescovi bosniaci, il Papa aveva espresso preoccupazione per i cattolici costretti, «dai non lontani eventi bellici, dalla disoccupazione e dalla mancanza di prospettive a rifugiarsi all’estero». I numeri, d’altra parte, sono impietosi: rispetto a vent’anni fa, i cristiani sono passati da ottocentomila a quattrocentomila. Intere diocesi hanno visto il proprio “gregge” di fedeli scendere del trenta per cento. L’obiettivo per i prossimi anni, osservava Papa Francesco, deve essere quello di promuovere una pastorale sociale finalizzata a «formare coscienze disposte a rimanere nei propri territori da protagonisti e responsabili della ricostruzione e della crescita» del paese. Fondamentale quanto necessaria è dunque la presa d’atto della «dimensione multi-culturale e multi-etnica della società».
C’è un parallelo tra quanto accadde in Bosnia-Erzegovina negli anni Novanta e le situazioni di crisi in pieno svolgimento qualche migliaio di chilometri più a oriente. La posizione della Santa Sede in riferimento all’avanzata jihadista guidata da Abu Bakr al-Baghdadi è stata enunciata dal Pontefice la scorsa estate, quando affermò che è «lecito fermare l’aggressore ingiusto». Una linea che richiama quella teorizzata da Giovanni Paolo II nel 1992 sul diritto d’ingerenza umanitaria, proprio in riferimento al conflitto balcanico. Il 7 agosto di quell’anno, il segretario di stato Angelo Sodano disse che «per frenare questa guerra, per recare soccorsi alle popolazioni e per indagare sulle accuse di atrocità in campi di concentramento, per i quali la Santa Sede ha notizie più che sicure, gli stati europei e le Nazioni Unite hanno il dovere e il diritto di ingerenza, per disarmare chi vuole uccidere». Ma sarebbe stato il Papa in persona, qualche mese più tardi (5 dicembre) a illustrare la posizione della Chiesa cattolica durante il suo intervento alla Fao: «Sia reso obbligatorio l’intervento umanitario nelle situazioni che compromettono gravemente la sopravvivenza di popoli e di interi gruppi etnici». Un mese dopo, il 17 gennaio 1993, nel consueto discorso al Corpo diplomatico, si richiamò agli stati, che “non hanno più il diritto all’indifferenza”. Parole che troveranno sicura eco nel pellegrinaggio del Pontefice.
Matteo Matzuzzi, vaticanista de Il Foglio