Dopo oltre 76 mila contagiati e 2248 morti non è ancora chiaro come la potenziale epidemia internazionale del coronavirus evolverà nelle prossime settimane. Quello che sappiamo però per certo è che l’infezione si è rapidamente estesa dagli esseri umani all’economia globale, andando a impattare quasi tutti i settori di commercio e produzione, compreso il mercato petrolifero. Dall’inizio della crisi i prezzi del greggio sono infatti rapidamente precipitati sotto la soglia di 50 dollari al barile (per poi rimbalzare intorno ai 53 dollari). La causa principale è il forte rallentamento della produzione industriale e delle stime di crescita economica della Cina, principale driver della domanda energetica globale, e le ripercussioni che queste ultime potrebbero avere sulle prospettive dell’intera economia mondiale.
Per far fronte al crollo dei prezzi l’Arabia Saudita, leader di fatto dell’OPEC, ha fatto pressione per una riunione tecnica il 4 febbraio a Vienna a cui, nei piani di Riyadh, sarebbe dovuta seguire una assemblea ministeriale di emergenza del cartello, mirata a esplorare la possibilità di tagli concordati alla produzione per spingere in alto i prezzi. La riunione tecnica aveva infatti proposto tagli complessivi da 600 mila barili. L’esigenza di tali tagli diviene dal fatto che la maggior parte dei produttori del cartello hanno budget statali non in grado di garantire stabilità e pareggio di bilancio a prezzi così bassi, a cominciare dalla stessa Arabia Saudita, il cui break-even secondo l’FMI si aggira intorno agli 80 dollari. A frustrare gli obiettivi sauditi si sono però presentati i dubbi della Russia, che pur non facendo parte formalmente dell’OPEC dal 2017 è legata all’Arabia Saudita da un accordo per tenere sotto controllo la produzione globale attraverso un sistema di tagli concordati (finora solo in parte rispettati, soprattutto da Mosca): il cosiddetto OPEC Plus. Mosca sembra aver assunto però una postura più attendista rispetto alla possibilità di ulteriori tagli, anche in virtù delle esigenze finanziarie più contenute di cui il governo russo ha bisogno per garantire la stabilità del proprio bilancio. La linea russa sembra aver fin qui prevalso: portavoce del cartello petrolifero hanno infatti annunciato che la riunione d’emergenza voluta da Riyadh non si terrà e che gli stati membri si incontreranno regolarmente il 5 marzo, come inizialmente previsto.
La cosa più sorprendente di questa ennesima contrazione dei prezzi del petrolio è che avviene a fronte di continue tensioni nello stretto di Hormuz, del declino dell’export iraniano e, soprattutto, del blocco della produzione libica imposto dal generale Haftar, che ha tolto dal mercato in pochi giorni quasi un milione di barili. Tutti eventi che fino a qualche anno fa avrebbero inevitabilmente comportato una repentina impennata dei prezzi greggio. Si tratta forse del primo vero segnale del fatto che il mercato petrolifero globale sta entrando in un’era nuova, che si preannuncia caratterizzata da una offerta in crescita e da una domanda stagnante. Negli ultimi due decenni eravamo infatti abituati a un mercato “teso”, dove l’offerta petrolifera era spesso appena sufficiente a compensare la domanda, e dove qualunque momentaneo shock dell’offerta – o perfino un minacciato shock, come le ripetute minacce iraniane di bloccare il passaggio dallo stretto di Hormuz – era in grado di impattare immediatamente sui prezzi del greggio. Una situazione che per molti anni ha concesso un grande leverage ai Paesi produttori, a cominciare dall’Arabia Saudita, un attore chiave con la capacità di influenzare i prezzi internazionali a proprio piacimento approfittando del suo ruolo di swing producer (ovvero di produttore in grado di contrarre o incrementare significativamente la propria produzione). Ciò ha anche garantito, almeno fino al 2014, un regime di prezzi molto alti, attestatisi per diversi anni oltre i 100 dollari al barile, che hanno contribuito a far lievitare i bilanci pubblici di molto Paesi produttori, a cominciare dalle monarchie del Golfo.
Un primo colpo strutturale a questo assetto del mercato è giunto con l’introduzione e la forte crescita dello shale gas americano, i cui investimenti per lo sviluppo sono stati resi possibili proprio dagli alti costi del petrolio, e che in meno di un decennio ha trasformato gli Stati Uniti da principale driver della domanda petrolifera a Paese esportatore. La reazione dell’OPEC e degli altri esportatori non si è fatta attendere. Nel 2015 l’Arabia Saudita ha cambiato radicalmente la propria politica incrementando vertiginosamente la propria produzione e portando i prezzi a sfiorare record negativi vicini ai 30 dollari al barile. L’obiettivo di Riyadh era duplice: allargare le proprie quote di mercato a danno di altri produttori vecchi e nuovi e, soprattutto, portare i prezzi a un livello tale da rendere lo shale americano economicamente insostenibile.
Obiettivi in gran parte mancati, soprattutto il secondo. L’ultimo quinquennio è stato infatti caratterizzato da un aumento costante dell’offerta extra-OPEC, a cui ha contribuito sia la crescita stabile dello shale sia l’arrivo sul mercato di nuovi produttori e di nuovi giacimenti di produttori tradizionali. Allo stesso tempo, un gran numero di fattori come il rallentamento dell’economia globale dovuto alle tensioni commerciali fra Washington e Pechino, la contenuta crescita economica della Cina (diventata il principale driver della domanda di greggio) e le crescenti preoccupazioni per il surriscaldamento globale hanno portato al consolidarsi di una stagnazione strutturale della domanda petrolifera, che sembra aver privato i Paesi produttori di gran parte del potere di influenzare in modo determinante i prezzi di mercato. Oggi, più che a shock dell’offerta dovuti a guerre e tensioni (soprattutto in Medio Oriente), i prezzi sembrano essere molto più suscettibili a shock della domanda, dovuti a guerre commerciali e altre crisi scarsamente prevedibili come, ad esempio, una nuova epidemia internazionale. Le conseguenze potrebbero essere radicali, andando a impattare direttamente la sostenibilità di lungo termine dei budget di molti Paesi produttori e, di conseguenza, la stabilità dei regimi al potere.