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Focus

Il problema dei foreign fighters catturati in Siria

Francesco Marone
|
Marco Olimpio
18 febbraio 2019

Con un duro messaggio su Twitter, sabato 16 febbraio il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha chiesto agli alleati europei di “riprendersi i propri foreign fighters” dello Stato Islamico catturati dalle forze curde in Siria e di provvedere a processarli. L’alternativa, ha avvertito Trump, sarebbe la liberazione di questi soggetti, con tutti i rischi del caso. Con l’imminente caduta dell’ultima roccaforte dello Stato Islamico a Baghuz, al confine tra Siria e Iraq, è riemersa la questione sul futuro dei foreign fighters catturati nell’area.

Quanti sono i combattenti jihadisti partiti per il conflitto in Siria e Iraq? Quanti di loro sono stati catturati dalle forze curde? Perché gli Stati europei sono stati finora riluttanti a rimpatriarli? Rappresentano ancora una minaccia, anche per i Paesi di origine?

Quanti sono i foreign fighters?

Il fenomeno dei cosiddetti foreign fighters non è inedito. Già in passato vi sono state ondate di combattenti, anche di ispirazione jihadista, dirette verso aree di conflitto all’estero, come l’Afghanistan, la Bosnia-Erzegovina e l’Iraq. Non mancano peraltro casi di vere e proprie staffette generazionali, anche in Italia.

Nondimeno, la recente mobilitazione di mujaheddin di tutto il mondo verso la Siria e l’Iraq ha presentato ritmi e dimensioni senza precedenti. Benché non esistano conteggi ufficiali, stime recenti fanno riferimento a non meno di 40.000 individui (compresi donne e bambini), da più di 80 Paesi. Tra questi volontari, circa 5-6 mila provenivano dall’Europa, ma con significative differenze da un Paese all’altro; almeno il 70% di essi, infatti, è partito da quattro Stati soltanto: Francia (circa 1.900 individui), Regno Unito e Germania (poco meno di mille ciascuno) e Belgio (circa 500). Secondo le stime disponibili, almeno un terzo dei foreign fighters europei sarebbe già rientrato dall’area del conflitto. D’altra parte, il flusso in uscita, verso la Siria e l’Iraq, si è sostanzialmente esaurito nel 2017, con la ritirata territoriale del cosiddetto Stato Islamico.

Il contingente di foreign fighters legati all’Italia appare di dimensioni comparativamente modeste, con 135 individui monitorati dalle autorità italiane nel 2018. Nel contesto europeo, tale numero può essere considerato basso in valori assoluti e addirittura molto basso in relazione all’intera popolazione: si tratta infatti di poco più di 2 foreign fighters per milione di abitanti, contro i circa 46 per milione di abitanti in Belgio, 33 in Austria, 30 in Svezia e 28 in Francia. Oltretutto, è opportuno ricordare non tutti questi 135 individui hanno la cittadinanza italiana; al contrario, solo una minoranza ha passaporto italiano (24, secondo lo studio sistematico dei profili individuali pubblicato dall’ISPI nel 2018).

 

 

 

Qual è la sorte dei foreign fighters catturati in Siria?

Secondo la recente dichiarazione del Presidente degli Stati Uniti, sarebbero “oltre 800” i combattenti stranieri dello Stato Islamico catturati dalle forze a maggioranza curda in Siria (SDF, Syrian Democratic Forces).

Secondo le informazioni disponibili, gli individui legati all’Italia in mano alle forze delle SDF sarebbero tre: Samir Bougana, cittadino italiano, nato nel 1994 in provincia di Brescia e partito dalla Germania nel 2013 (dove si era trasferito con la famiglia); Meriem Rehaily, una ragazza 23enne di origine marocchina, già residente in provincia di Padova, condannata a 4 anni di carcere in contumacia per arruolamento con finalità di terrorismo a dicembre 2017; Sonia Khediri, partita dalla provincia di Treviso a 17 anni, catturata dalle SDF a gennaio 2018 insieme ai suoi due bambini di tre anni e quattro mesi.

Il rimpatrio degli jihadisti europei presenta diversi problemi, per ragioni legali (ed etiche), di sicurezza ed economiche.

Da un punto di vista legale, processare i jihadisti rimpatriati sarebbe particolarmente complicato. Non tutti i Paesi europei hanno strumenti normativi adatti per gestire procedimenti penali nei confronti di questi soggetti - anche senza considerare che le SDF non rappresentano alcun Stato sovrano. Nella pratica, raccogliere prove nel contesto della guerra civile siriana, evidentemente, non è affatto semplice. Oltretutto, in Paesi come il Regno Unito tali prove potrebbero non essere considerate ammissibili in un processo.

Un problema ancora più complesso è posto da coloro i quali si sono recati in Siria e Iraq, ma non hanno partecipato personalmente ai combattimenti, pur aderendo all’ideologia di gruppi armati jihadisti. Questo vale, in particolare, per le donne, che rappresenterebbero, secondo le stime disponibili, quasi un quinto degli individui partiti per il teatro di guerra siro-iracheno.

Chiaramente occorre anche considerare il rischio di rimpatriare soggetti pericolosi, nella misura in cui essi non abbiano abbandonato l’ideologia jihadista e siano persino ancora interessati a usare la violenza per raggiungere obiettivi estremistici. Il loro ritorno potrebbe aumentare il pericolo di attacchi terroristici in Europa, nel peggiore dei casi, o potrebbe quantomeno avere l’effetto di aggravare ulteriormente il carico di lavoro delle forze antiterrorismo del vecchio continente, già impegnate a monitorare migliaia di individui segnalati come radicalizzati. In aggiunta, anche con un’eventuale condanna alla reclusione, non si potrebbe escludere il rischio di attività di proselitismo e reclutamento in carcere, dove il problema della radicalizzazione jihadista è già serio.

Da ultimo, la presa in carico di questi soggetti comporterebbe anche un impegno economico significativo, quantomeno per Paesi come la Francia, la Germania e il Regno Unito, che hanno, come detto, contingenti molto ampi di combattenti all’estero. I costi per trasferimenti, processi, eventuali iniziative di deradicalizzazione e reintegrazione, supporto sanitario e psicologico, ecc. sarebbero notevoli (e presumibilmente non così facili da giustificare rispetto ad alcuni settori dell’opinione pubblica).

Che fare dei minori?

Si è accennato al problema costituito dalle donne, che si sono unite (di solito in piena libertà) a gruppi armati jihadisti in Siria e Iraq, senza avere l’autorizzazione ad assumere ruoli di combattimento nel teatro di guerra.

Un’incognita ancor più complessa riguarda i soggetti che sono arrivati da minorenni nei territori controllati a suo tempo dello Stato Islamico, portati dai propri genitori o da altri adulti, o che vi sono addirittura nati. Molti di questi soggetti hanno quindi trascorso diversi anni fondamentali nella formazione di una persona in aree sotto il controllo di gruppi estremistici, esposti ad atti di violenza sistematica e altri eventi traumatici, a contatto quotidiano con l’ideologia jihadista, subendo persino articolati processi di indottrinamento. Il loro rimpatrio richiederebbe quindi un’attenta e delicatissima attività di supporto.

Oltretutto, a differenza di altri gruppi armati (come le milizie che impiegano bambini soldato in alcuni conflitti in Africa e in Asia), lo Stato Islamico ha riservato grande spazio all’impiego dei bambini nell’ambito della sua vasta e sofisticata attività di indottrinamento e di propaganda. A quelli già presenti nelle aree conquistate dall’organizzazione di al-Baghdadi, occorre aggiungere quelli giunti, appunto, dall’estero, al seguito di foreign fighters adulti. Nel territorio governato da questo gruppo per alcuni anni, indottrinamento e addestramento si fondavano su un approccio sistematico, con strutture centralizzate e procedure rigide. Lo scopo era quello di trasformare gli alunni in veri e propri “cittadini” dello Stato Islamico e in militanti jihadisti, sfruttando la particolare vulnerabilità a interventi di condizionamento e manipolazione dei minori.

Che cosa hanno fatto finora i Paesi europei?

Per lungo tempo, per le ragioni legali, di sicurezza ed economiche menzionate in precedenza, i Paesi europei non si sono impegnati attivamente a rimpatriare i propri foreign fighters. Alcuni cambiamenti degni di nota si sono registrati solo nelle ultime settimane. In particolare, a gennaio 2019 il Ministro della Giustizia francese, Nicole Belloubet, ha annunciato che Parigi avrebbe iniziato a rimpatriare circa 130 cittadini sotto il controllo delle forze curde in Siria, processando i combattenti adulti. Secondo il Ministro, circa il 75% di questi 130 soggetti sarebbe costituito da minori, di età inferiore ai 7 anni.

In altri Paesi europei la risposta è stata finora meno netta. Per esempio, il Belgio - altro Paese europeo particolarmente interessato, come detto, dal fenomeno - ha annunciato che avrebbe facilitato il rimpatrio di bambini al di sotto dei 10 anni, se fosse stato possibile accertare il legame con il genitore belga e che invece avrebbe considerato il rimpatrio degli altri cittadini caso per caso.

Come si può intuire, anche l’opzione alternativa di lasciare i “propri” foreign fighters in Siria - sotto il controllo di un attore non-statale, già molto impegnato con la conduzione di un conflitto armato -  presenta aspetti problematici. Il rischio maggiore è rappresentato dall’eventualità che molti di questi combattenti potrebbero essere rilasciati dalle forze a maggioranza curda, come prospettato proprio da Trump, e potrebbero quindi trasferirsi in altre aree di conflitto – come, per esempio, il Sinai – o potrebbero rimanere in loco con l’obiettivo di contribuire alla rinascita dello Stato Islamico in Siria e in Iraq.

Qual è la minaccia per l’Europa?

Chiaramente, in aggiunta al contributo militare offerto nei teatri di guerra, il timore è che i foreign fighters jihadisti sopravvissuti alle ostilità possano ritornare nei Paesi di origine o trasferirsi in altri Paesi europei per supportare o realizzare attacchi terroristici, avvalendosi dei legami, dell’esperienza e dello status sociale che hanno ottenuto nelle aree di conflitto. Oltretutto, eventuali azioni terroristiche eseguite da reduci dei teatri di guerra potrebbero avere l’effetto di scatenare reazioni estreme, nel contesto di un crescente processo di polarizzazione all’interno delle società europee.

Già nel 2017, un rapporto ISPI, analizzando gli attacchi di matrice jihadista eseguiti in Europa e Nord America a partire dal 29 giugno 2014 (proclamazione del Califfato), aveva posto in evidenza il rischio che foreign fighters di ritorno (returnees) potessero eseguire attacchi terroristici in Europa (il cosiddetto “effetto blowback”).

Aggiornando quei dati originali ISPI, si può affermare che dalla proclamazione del “Califfato” a oggi, su 99 terroristi jihadisti che hanno colpito in Occidente (portando personalmente a termine con successo 77 attacchi), 14 attentatori erano ex foreign fighters (circa il 15%); una minoranza, quindi, ma associata ad attentati di particolare gravità, come quelli del 13 novembre 2015 a Parigi (al Bataclan e in altri luoghi della città), a Bruxelles del 22 marzo 2016 (all’aeroporto e al sistema dei trasporti).

La forte preoccupazione di un ritorno in massa dei foreign fighters e un conseguente aumento nel  numero degli attacchi terroristici in Europa finora non si è concretizzata. Nondimeno, la minaccia potenziale rimane seria.

 

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Gary C. Jacobson
University of California, San Diego

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Donald Trump foreign fighters UE Siria
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AUTORI

Francesco Marone
ISPI Research Fellow, Osservatorio Radicalizzazione e Terrorismo Internazionale
Marco Olimpio
ISPI Research Assistant, Osservatorio Radicalizzazione e Terrorismo Internazionale

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