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Commentary

Il realismo americano alla prova dell'Egitto

04 luglio 2013

La piazza ha vinto? Parrebbe di sì a giudicare dall'esultanza con cui è stato accolto l'avvertimento prima, l'ultimatum poi e infine il colpo di stato operato dalle Forze armate al comando del generale el-Sisi. 

Ma quale piazza? Ha perso quella della Fratellanza musulmana che pure sarebbe erroneo sottovalutare soprattutto nella prospettiva di nuove elezioni.

Ha vinto quella oceanica di piazza Tahrir e di tante altre città egiziane; quella che nella sua impressionante dimensione nascondeva il limite di essere un grandioso conglomerato di forze e di movimenti molto eterogenei fra loro, ciascuno con una propria agenda politica. Uniti tutti dal collante del rigetto di Morsi e della sua gestione del potere, ottusamente incapace di aprirsi a un'inclusività suscettibile di evitare quella che si è rivelata l'inesorabile spinta a un'affermazione autoritaria dell'agenda ideologico-religiosa della Fratellanza musulmana. Tanto meno accettabile in quanto accompagnata da un governo della gravissima crisi sociale ed economica del paese del tutto inadeguata anche perché aggravata dalle stesse turbolenze della piazza, solo in parte spontanee. 

Risultante ne è stato l'essere riuscito a far addirittura lievitare il già cospicuo dissenso (48,3%) manifestato nei suoi riguardi nelle elezioni dell'anno precedente, quando il suo contendente era Shafiq; un militare dietro la cui bandiera, non dimentichiamolo, si erano schierati anche i nostalgici di Mubarak e coloro – tra i quali gli Amr Moussa e gli Al Baradei – che per lungo tempo si erano scaldati al suo sole, prima di convertirsi a propugnatori della primavera egiziana. 

Morsi contava sulla protezione/forza dello scudo della vittoria elettorale e dell'incipiente sistema "democratico" di cui si sentiva e voleva accreditarsi protagonista. Vi contavano anche i principali partner dell'Egitto, a cominciare dagli Stati Uniti, che pure avrebbero preferito una soluzione meno "islamica", a ciò sollecitati dal convincente binomio delle ragioni della real politik e dell'ossequio alla volontà popolare, legittimamente espressa. E per qualche tempo si erano confortati nella scelta fatta che in fondo sembrava premiare un'onda lunga di rinascita islamica costruttivamente orientata nei riguardi dell'Occidente. Anche il pre-pensionamento dei vertici militari parve una svolta obbligata e tale da avallare la conferma del cospicuo assegno annuale americano. Ci fu poi il momento della mediazione Israele-Hamas che sembrò incoronare spessore politico e perspicacia del nuovo presidente, pur già variamente contestato.

Ma è stato nel corso del primo semestre 2013 e soprattutto in questi ultimi tre mesi che la spirale della protesta ha assunto un brusco avvitamento e una forza espansiva difficilmente prevedibile. 

Morsi non si è reso conto dei principi attivi che la alimentavano anche in chiave etero diretta. Qualche osservatore arrivò a sostenere che, al Cairo soprattutto, circolava un segreto che tutti conoscevano ma che pochi volevano ammettere: e cioè che buona parte dei protestatari auspicava l'intervento delle Forze armate non solo per dare la spallata a Morsi ma anche per propiziare il ritorno dei militari al potere.

Morsi non lo ha capito e si è voluto contrapporre a quella piazza e alla sua componente che forse, in una prima fase, avrebbe acconsentito a un’opzione di inclusività sul versante governativo. La stessa dirigenza della Fratellanza non capì o preferì non capire, dando Morsi per giubilato, cinicamente.

Non ascoltò neppure le sollecitazioni provenienti dai suoi principali partner internazionali. Il resto è cronaca di queste ultime ore. 

Si è trattato di un colpo di stato? Sì visto che Morsi è stato costretto a lasciare il Palazzo con la forza. Lui, il primo presidente democraticamente eletto. Attenua questo giudizio il fatto che in questo modo si è evitato il male maggiore della guerra civile?  Sì, anche se manca la prova del contrario, perché questa motivazione ci toglie d'imbarazzo. La Casa Bianca in primo luogo che nei conti algebrici delle passività e delle positività vede queste ultime decisamente superiori. Non può permettersi un altro fronte di criticità – e del calibro dell'Egitto – in Medio Oriente. Nella sua prima dichiarazione Obama non ha mai parlato di "colpo di stato" perché ciò lo avrebbe costretto a sospendere qualsivoglia forma di aiuto e di assistenza. Ha tuttavia ammonito a procedere con la massima sollecitudine e trasparenza sulla strada della restituzione del potere ai civili attraverso gli strumenti della democrazia.

A fronte di ciò gli è venuta senz'altro di conforto la nomina a presidente ad interim di un civile, Adly Mansour, già presidente della Corte costituzionale. Ma entro certi limiti, giacché resta tutta l'inquietudine legata al futuro prossimo di questo paese che una pur solenne dichiarazione di road map lascia assolutamente problematica. 

Washington l'ha espressa nei modi e nei termini più controllati ma anche più pregnanti. È da attendersi che, salvo strappi inconsulti da parte dei vertici militari, la sua posizione evolverà in una chiave di sano realismo. Lo suggerisce anche la modulazione di linguaggio del Regno Unito orientata a una disponibilità alla collaborazione.

Dal "ministro degli esteri europeo" è venuto un linguaggio assai fermo nei principi di riferimento ma parimenti escludente una chiusura senza condizioni, in linea con la saggia quanto tempestiva indicazione del ministro Bonino, mentre dalla Turchia di Erdogan è arrivato un giudizio reso decisamente critico aggravato da una patente di "inaccettabilità" . 

La Siria di Assad gioisce di questa "sconfitta dell'islam". 

L'Unione africana si ritrova in un serio grattacapo visto che rispetto ai colpi di stato più o meno dichiarati tali segue una procedura molto rigorosa. Ma il peso specifico dell'Egitto, la linea americana e la relativa condizionalità europea l'aiuteranno a trarsi d'impaccio.

Non ha invece avuto alcuna esitazione, e se ne comprendono bene le ragioni, l'Arabia Saudita, attore ormai ineludibile dello scenario mediorientale e dei suoi equilibri in tormentata evoluzione, che ha subito riconosciuto il nuovo presidente. Al seguito il giovane emiro del Qatar, significativamente.

Il vertice militare egiziano ha assunto una grave decisione. A loro spetta adesso dimostrare al mondo che meritavano fiducia e all'Occidente di vigilare.


Armando Sanguini, ISPI Scientific Advisor, già Ambasciatore d’Italia in Tunisia e Arabia Saudita

 

Vai al Dossier Egypt After Morsi

 

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