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Commentary

Il rilancio dell’UE non sia fine a se stesso

Giampiero Massolo
24 marzo 2017

È quasi superfluo osservare come l’Unione Europea rischi di uscire ulteriormente indebolita da quella che si preannuncia, nell’era Trump, come una fase di bilateralizzazione dei rapporti internazionali, caratterizzata dalla sostituzione della logica dell’accordo e della concertazione con una logica più di potenza.

Ciò, in una temperie nella quale l’UE appare, di suo, prigioniera di una contraddizione. Da un lato, vi sono le paralisi che ben conosciamo: la Brexit ormai in procinto di avviarsi concretamente, la tornata di consultazioni elettorali in diversi Paesi, l’obsolescenza del decision making, la carenza di leadership. Dall’altro, la necessità di “fare presto”, di accelerare in ambiti fondamentali quali la difesa, la sicurezza interna, la crescita, le riforme strutturali.

Peraltro, nella probabile circostanza che il quadro di regole vigente non muti per mancanza oggi di un consenso unanime in tale direzione, i programmi di riforma strutturale e la ricerca della competitività di ciascuno Stato membro non potranno che essere perseguiti a livello nazionale: ossia, attraverso modalità tali da limitare crescentemente ogni supplenza da parte dell’Unione.

Tutto questo rischia di accentuare la tensione fra quel che le opinioni pubbliche si attendono e quel che i Governi potranno realisticamente fare. E tale iato, a sua volta, è suscettibile di ripercuotersi, con la crescita dell'insoddisfazione popolare, sulla tenuta del fragile binomio “solidarietà-responsabilità”, che rimane invece indispensabile per proseguire sulla via dell’Unione, non fosse altro che per coinvolgervi quel membro che per la stessa UE è il Paese di crescente riferimento, cioè la Germania.

Cosa può scaturire da questo quadro? Possono, purtroppo, derivarne una inopinata esasperazione delle tendenze populiste ed una contestuale accentuazione delle spinte disgregative dell’Unione. Dobbiamo dunque domandarci cosa fare per spezzare questo circolo che rischia di divenire pernicioso.

Di sicuro, l’ultima cosa da fare è innescare un dibattito di tipo “teologico-istituzionale”, sui possibili sviluppi degli assetti di governance dell'Unione. Fermo restando, tuttavia, che se davvero vogliamo mettere l’UE in grado di rispondere con efficacia alle esigenze dei cittadini in materia di crescita economica e di benessere, una dose di “architettura istituzionale” sarà comunque necessaria e alcuni risultati veloci e tangibili dovranno pur essere raggiunti al più presto, specie nei settori della sicurezza e della prosperità.

Il nodo, in fin dei conti, è “come” rilanciare effettivamente l’UE. Le formule servono, ma non debbono compromettere gli interessi legittimi degli Stati e non possono essere fini a se stesse, pena una sempre maggiore disaffezione dei cittadini verso l’Europa.

È in questa chiave che va affrontata anche la riflessione sulla adeguatezza e sulla effettiva percorribilità di una eventuale “Europa a più velocità” e per almeno due buoni motivi.

Il primo è che sembra assai difficile non stare ai Trattati vigenti. Per un verso è una necessità (l’unanimità non risulta possibile alla prova dei fatti), per altro verso è una costrizione (lo è ratione materiae e anche in forza dei vincoli procedurali), ma più ancora è una garanzia contro la frammentazione, che sortirebbe l’effetto di incoraggiare le tentazioni egemonizzanti di questo o di quello. 

Allo stesso tempo, va responsabilmente affrontata la questione di quale direzione imboccare per dare ai cittadini dell’Europa la sensazione del “fare”, l’idea concreta che stiamo lavorando per loro. Possiamo immaginare varie strade, nessuna delle quali è però immune dal generare tensioni. Possiamo pensare al varo di grandi progetti infrastrutturali finanziati dal bilancio europeo, scontando l'improbabilità di poter contare sul favore della Germania. Mentre l’idea di un’accresciuta difesa europea dovrebbe ancora superare le residue perplessità francesi, così come per quella di un maggiore controllo delle frontiere occorrerebbe fare i conti con i Paesi di Visegrad, su posizioni oltranziste.

Insomma, dobbiamo misurarci con un’epoca di grande incertezza. Potrebbero aiutarci ad uscirne un paio di punti fermi.

Anzitutto, non dimentichiamo che già nel quadro normativo esistente è comunque possibile fare molto, si possono individuare ambiti prioritari di collaborazione rafforzata, indipendentemente dall’idea delle “diverse velocità”: tanto vale agire subito.

E poi, quale che sia il volto dell’Unione di domani, ogni Paese membro dovrebbe, qui ed oggi, tenere ben presente che un ambiente di rinnovata fiducia reciproca non può essere solo invocato. Deve essere anche costruito e non potrà esserlo senza che ciascuno faccia il suo a casa propria, agendo in fretta sui propri fattori di vulnerabilità.

È nell’interesse di tutti che tutti guardino in faccia la realtà: se a farlo fosse uno solo, magari da una posizione di vantaggio, inevitabilmente il mondo, al momento di chiamare in causa l’UE, finirebbe col volgere lo sguardo a quella capitale prima che a Bruxelles, chiedendosi che ne è stato dell’Europa.

 

Giampiero Massolo, presidente ISPI

 

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Giampiero Massolo
Presidente ISPI

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