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Commentary

Il ritorno alle origini del Papa pellegrino in Terra Santa

22 maggio 2014

Più si avvicina la partenza del Papa per la Terra Santa, più dal Vaticano si tende a ridimensionare la portata del viaggio, temendo quasi che il successo auspicato non si traduca poi in un’effettiva riuscita della visita di tre giorni tra Giordania, Palestina e Israele. Gli ostacoli non mancano e oltreTevere la parola d’ordine è “prudenza” nel trattare quella che da un anno è considerata una tra le tappe che più caratterizzeranno il pontificato del gesuita argentino asceso al Soglio di Pietro. Il Papa, al termine dell’udienza generale del 21 maggio, non a caso ha sottolineato che il viaggio avrà esclusivamente “carattere religioso”, premettendo dunque che di politica non ha alcuna intenzione di occuparsi. Tra tutti gli eventi che fanno parte dell’articolato programma – in sole settantadue ore sono previsti ben dieci discorsi, tre omelie e un’allocuzione – ce n’è uno che per importanza sovrasta tutti gli altri: l’incontro con il Patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I, che avrà luogo domenica prossima nel tardo pomeriggio di Gerusalemme. Incontro voluto con forza da Francesco, che dell’ecumenismo ha fatto uno dei cardini del pontificato, come dimostra la citazione tratta da Sant’Ignazio d’Antiochia su Roma come chiesa «che presiede nella carità tutte le altre chiese», pronunciata una volta apparso alla Loggia di San Pietro in abiti papali. Il resto fa da contorno, compresa la breve visita al Memoriale di Yad Vashem. 

Dopotutto, fin dal principio lo scopo primario del viaggio è l’abbraccio con i “fratelli separati” d’Oriente, e non è un caso che l’invito a Francesco fosse partito proprio da Bartolomeo I, già pochi giorni dopo l’elezione di Jorge Mario Bergoglio come successore di Benedetto XVI. L’occasione per farsi pellegrino nei luoghi dove il Cristianesimo affonda le proprie radici è data dai cinquant’anni dello storico viaggio in Palestina di Paolo VI, culminato nello storico abbraccio con Atenagora, il 5 gennaio 1964. Fu questo episodio – come ha spesso ricordato lo storico Alberto Melloni – ad aver rappresentato il lato positivo del pellegrinaggio di Montini, mentre sul fronte dei rapporti con gli ebrei le cose non andarono come sperato. I segnali che il copione possa ripetersi in modo simile, non mancano. È di pochi giorni fa la polemica montata da ambienti legati all’ebraismo ortodosso circa la messa nel Cenacolo che Francesco dovrebbe celebrare a conclusione della “tre giorni in Terra Santa”. Diverse manifestazioni sono state organizzate per chiedere al governo di Tel Aviv di negare al Papa l’ingresso nell’edificio, diviso tra i fedeli di religione ebraica che lo considerano la sede della tomba di re David e i cristiani che lo venerano come il luogo dove Cristo istituì l’Eucaristia. Da anni, Roma chiede la sovranità della stanza del Cenacolo, lasciando a Israele il piano inferiore, quello dove secondo la tradizione medievale riposano le spoglie del primo re d’Israele. Gli ebrei ortodossi temono che un evento come quello in programma, con il Pontefice che vi celebra una messa, possa far “capitolare” l’esecutivo di Benjiamin Netanyahu e accogliere la richiesta del Vaticano. Anche da parte palestinese si sono levate polemiche circa il piano predisposto dalle autorità locali di concerto con la Santa Sede. 

Se il perno del viaggio riguarda principalmente i rapporti con gli ortodossi, minore attenzione pare rivolta alla mediazione tra palestinesi e israeliani. Di certo il Papa invocherà la pace, come del resto ogni Pontefice ha fatto quando s’è recato in Terra Santa da Paolo VI in poi, ma Francesco è ben cosciente che qualche parola in un’omelia pronunciata in poco meno di tre giorni di permanenza in quelle terre rischia di produrre più danni che benefici. Saluterà i bambini dei campi profughi di Dheisheh, Aida e Beit Jibrin, celebrerà la messa nella piazza della mangiatoia a Betlemme (elemento, questo, che ha non poco indispettito Tel Aviv, dal momento che l’unica messa presieduta da Francesco in territorio israeliano sarà quella al Cenacolo di Gerusalemme nel pomeriggio del lunedì, poco prima della partenza). Ma poco altro c’è da attendersi, a meno di clamorosi e al momento imprevedibili fuori programma. La Segreteria di stato consiglia di centrare il messaggio del viaggio sulla spiritualità e il piano religioso. Inoltre, il timore di incomprensioni, incidenti o irrigidimenti suggerisce che poco ci si discosterà da quanto studiato e predisposto dai canali diplomatici. Lo stesso rabbino Abraham Skorka, amico di vecchia data di Jorge Mario Bergoglio, s’è mostrato assai prudente sui risultati della visita: «Non mi aspetto che Papa Francesco risolva tutti i problemi tra palestinesi e israeliani, né tutti i conflitti del Medio Oriente e del mondo», ha detto in un’ampia intervista alla Civiltà Cattolica recentemente pubblicata. Il messaggio del viaggio, ha aggiunto Skorka, è molto più ampio dell’evento in sé: «Per varie ragioni il conflitto palestinese-israeliano viene fatto oggetto di speciale attenzione ed è tra quelli che risvegliano le più accese passioni in molte zone del mondo». Skorka, che insieme al segretario generale del Centro islamico di Argentina, Omar Abboud, accompagnerà il Pontefice in Terra Santa, ha avuto un ruolo non indifferente nella programmazione del viaggio. L’ha detto lui stesso, sempre alla rivista edita dalla Compagnia di Gesù: il 13 giugno di un anno fa, durante un pranzo «rispettoso delle leggi kashrut» a Santa Marta, «abbiamo studiato la possibilità della visita del Papa in Terra Santa. Ci siamo messi a sognare di trovarci insieme davanti al Muro, di abbracciarci per dare un segno ai duemila anni di dissensi tra ebrei e cristiani, e che io lo accompagnassi a Betlemme per essergli accanto in un momento tanto significativo per il suo spirito, come gesto di amicizia e di rispetto».

Matteo Matzuzzi, vaticanista de Il Foglio

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