Uno sguardo d’insieme e alcuni dati
Il flusso dei cosiddetti foreign fighters – ossia di quegli individui che abbandonano il proprio paese di appartenenza per partecipare a un conflitto in un altro teatro[1] – non è un fenomeno inedito. Già in passato, infatti, vi erano state mobilitazioni di combattenti verso aree di conflitto all’estero: si pensi all’Afghanistan (dopo il 1979), all’Iraq (a partire dal 2003)[2]. A ogni modo, rispetto alle precedenti mobilitazioni, la portata dell’attuale ondata di combattenti è senza precedenti: eventi quali lo scoppio della “primavera araba” in Siria, i successi conseguiti negli scorsi anni dal sedicente Stato Islamico e la proclamazione del califfato hanno causato un aumento dei flussi di mujahidin verso la Siria e l’Iraq[3]. In questa sede si affronterà il fenomeno dei foreign fighters che (a) sono animati dall’ideologia jihadista e che (b) si recano verso la Siria e l’Iraq.
Secondo alcune stime, sino agli inizi del 2016, a livello globale, 42.000 individui hanno raggiunto il quadrante siro-iracheno per unirsi a gruppi insurrezionali islamisti e terroristici[4]. Buona parte di questo contingente proviene dalla Russia e dalle ex repubbliche sovietiche (8.700 individui), nonché dai paesi del Medio Oriente (7.000 individui) e del Maghreb (5.300 individui): ad esempio, dalla sola Russia provengono circa 3.400 combattenti, 3.200 dall’Arabia Saudita, 3.000 dalla Giordania e altrettanti dalla Tunisia[5].
Anche la mobilitazione di combattenti europei è stata significativa: il numero di foreign fighters aventi per origine un paese membro dell’Unione europea potrebbe ammontare alle 5.000 unità. In termini assoluti, il fenomeno non ha colpito i paesi europei in modo omogeneo: una porzione consistente del flusso europeo proviene da soli quattro stati, ossia Francia (circa 1.900 unità), Germania (oltre 900), Regno Unito (circa 850) e Belgio (circa 480 unità)[6]. Al contrario, nei paesi dell’Europa orientale il fenomeno ha avuto uno scarso impatto: ad esempio, sino all’aprile dello scorso anno, l’Estonia e la Lettonia avevano assistito alla partenza di soli 2 combattenti (ciascuna)[7].
La discrepanza tra i vari stati europei è evidente anche in termini relativi, ossia in relazione con il peso demografico di ciascun paese. Per esempio, il Belgio, l’Austria e la Svezia presentano rispettivamente 42, 34 e 31 foreign fighters per milione di abitanti, mentre nel caso del Portogallo la proporzione è nettamente inferiore: solo 1 foreign fighter per milione di abitanti. Interessanti anche i casi di Spagna e Italia, che “forniscono” rispettivamente 204 e 125 unità in termini assoluti (in termini relativi circa 4 e 2 unità per milione di abitanti, rispettivamente)[8].
I profili dei combattenti risultano eterogenei e, perciò, è difficile avanzare delle generalizzazioni. Tuttavia, secondo quanto emerso da recenti studi, spesso i mujahidin sono giovani uomini con un livello di istruzione non particolarmente elevato (perlomeno in rapporto con gli altri cittadini), difficoltà economiche e, talvolta, problematiche familiari[9]. Del resto, diversi campioni di ricerca possono generare risultati difformi – per cui le conclusioni di un determinato studio possono essere confutate da altre analisi. Alcuni parametri, poi, variano sensibilmente a seconda del paese di riferimento: la ricerca di un profilo tipico comune a tutto il contesto europeo, dunque, può rivelarsi ardua. Comunque, a livello complessivo, rispetto alle scorse ondate di combattenti si è visto un incremento del numero di donne (e di convertiti)[10].
Partenza per il jihad e ritorno in patria: quale minaccia?
Già nel 2012 Europol aveva espresso i propri timori riguardo al fenomeno dei foreign fighters jihadisti, in particolare per quanto concerne il cosiddetto “effetto blowback” – cioè l’eventualità che i mujahidin possano beneficiare dell’addestramento, dell’esperienza, delle conoscenze e dei contatti acquisiti al fronte per sferrare attacchi in Europa[11]. Timori rafforzati dai più recenti sviluppi, segnati dalla contrazione territoriale di Isis, con il rischio che un numero sempre maggiore di combattenti decida di tornare in patria. In effetti, in sintonia con queste previsioni, si stima che circa il 30% del contingente europeo sia tornato nel proprio paese di residenza[12].
L’impatto dei foreign fighters si manifesta innanzitutto nel teatro di guerra, dove i soggetti possono radicalizzarsi ulteriormente e contribuire a inasprire il conflitto, rendendosi responsabili di violenze ai danni della popolazione locale[13]. Per quanto riguarda l’aspetto “domestico” della minaccia, cioè in relazione ai paesi europei, vi sono vari fattori di rischio da tenere in considerazione. Ad esempio, un soggetto inizialmente concentrato sulla lotta locale potrebbe abbracciare una visione “globale” (in cui il paese di provenienza è un bersaglio legittimo) in un secondo momento, durante la permanenza in Siria/Iraq. Ciò potrebbe accadere per svariate ragioni: per un processo di maturazione ideologica puramente personale; perché sotto la pressione del gruppo di appartenenza, orientato su scala globale; ancora, in seguito a uno slittamento ideologico verso il “nemico lontano” da parte della propria formazione[14].
L’effetto blowback si è già manifestato in alcuni attacchi (e piani di attacco) terroristici in Europa, cui hanno preso parte vari reduci di guerra: si pensi alla macro-cellula di Parigi e Bruxelles, responsabile degli attentati del 13 novembre 2015 e del 22 marzo 2016, che comprendeva diversi ex foreign fighters. Prendendo in esame gli attacchi portati a termine in Europa tra il 29 giugno 2014 – data della proclamazione del califfato – e il 1° giugno 2017, si nota che solo il 18% degli attentatori è rappresentato da veterani del jihad. In tale periodo, gli attacchi che hanno visto il coinvolgimento di reduci di guerra si sono dimostrati più letali, con una media di 35 vittime per attentato (rispetto a una media generale di 7 vittime per attentato)[15].
I veterani jihadisti, poi, potrebbero porre una minaccia “indiretta”. Da un lato, vi è il rischio che alcuni di questi non partecipino in prima persona all’esecuzione di atti terroristici, ma che, piuttosto, vengano coinvolti in attività secondarie, contribuendo alla formazione di cellule di reclutamento o supporto logistico e/o finanziario per il jihadismo globale[16]. Potrebbero in futuro trasformarsi in jihadi entrepreneurs, figure chiave del panorama jihadista europeo attorno a cui si coagulano cluster di militanti[17]. Dall’altro lato, in termini generali, la sfida posta dai foreign fighters potrebbe saldarsi con altre problematiche vissute dagli stati europei, accentuando la polarizzazione delle loro società – con il rischio di creare un circolo vizioso tra tensioni sociali e processi di radicalizzazione jihadista[18].
Ciononostante, ai fattori di rischio appena tracciati si affiancano elementi che mitigano la minaccia dei reduci jihadisti. In primo luogo, non esiste un’equivalenza meccanica tra esperienza di combattimento all’estero e desiderio di compiere attentati nell’arena domestica. Non sembra che la volontà di eseguire attacchi in patria sia tra le prime ragioni alla base del viaggio in Siria o Iraq; in generale, al contrario – almeno in una prima fase – si manifesta essenzialmente l’intenzione di agire in loco[19]. Come i profili degli individui, anche le motivazioni sono altamente specifiche (e ogni caso andrebbe valutato a sé), ma non mancano aspetti ricorrenti: la determinazione a difendere i propri correligionari, considerati sotto attacco; la volontà di abitare in un luogo in cui si vivano integralmente i principi islamici; l’avventurismo e il desiderio di fuga, ecc.[20].
In secondo luogo, non tutti i foreign fighters sopravvissuti alle ostilità torneranno in patria: alcuni rimarranno nel teatro di conflitto, unendosi alla resistenza locale; un’altra porzione potrebbe essere rappresentata dai quei combattenti che si recheranno in un’altra zona di guerra per combattere il jihad (in Yemen, Libia, ecc.). Per quanto riguarda i militanti reduci in Occidente, potrebbero verificarsi vari scenari: vi sarà un gruppo costituito da reduci disillusi, che intendono abbandonare la scena jihadista; poi un altro segmento, composto da soggetti non disillusi, ma non operativi; infine un gruppo di individui attivi, intenzionati ad agire[21]. Secondo uno studio di Hegghammer del 2013 – focalizzato sul flusso di foreign fighters occidentali tra il 1990 e il 2010 (dunque prima della “primavera araba”) –, solo in un caso su nove il reduce ha messo in atto attacchi in patria[22]. È anche vero però che le precedenti mobilitazioni non sono paragonabili – per intensità, diffusione dell’ideologia jihadista, ecc. – al flusso attuale.
Risposte e criticità di fronte alla sfida dei reduci
Dopo aver accennato ai rischi derivanti dal ritorno dei foreign fighters, è necessario riflettere sulle misure approntate e sulle sfide derivanti. Si possono individuare tre tipi di problematiche: la prima è legata all’intercettazione dei reduci del jihad; la seconda concerne il loro monitoraggio; la terza riguarda il quadro giuridico e il perseguimento del crimine. Le lacune nello scambio di informazioni tra i paesi europei (e non) rappresentano una criticità che può incidere in tutti questi tre “campi”.
Intercettazione
Tra le varie iniziative attinenti allo scambio di informazioni, occorrerebbe inserire e aggiornare sistematicamente i profili dei combattenti/potenziali reduci nel Sistema di Informazioni Schengen (Sis II) e nei database di Europol, avvalendosi anche di metodi di identificazione biometrica e condividendo le informazioni ricavate a livello nazionale. È inoltre necessario collaborare con Paesi terzi, tra cui spicca la Turchia, arteria geografica centrale per i flussi di mujahidin[23]. Per quanto riguarda il gap informativo, la liberazione di importanti centri quali Mosul o Raqqa ha avuto risvolti positivi, poiché ha permesso di accedere a numerosi documenti ufficiali di Isis – grazie ai quali è stato possibile identificare molti foreign fighters e le cellule di supporto ad essi connesse[24].
Monitoraggio
I veterani devono essere sottoposti a una procedura di valutazione del rischio, che varia a seconda dell’individuo, e dipende da vari fattori: ad esempio, i motivi alla base del viaggio, le attività svolte in loco, l’eventualità di un ritorno, ecc. Reperire queste informazioni può rivelarsi arduo per le autorità: a tale scopo, sono fondamentali i contatti sul terreno (in Siria e/o Iraq), nonché con le comunità di appartenenza dei combattenti (in Europa), il monitoraggio delle piattaforme online e un buon livello di cooperazione a livello internazionale[25].
Altrettanto problematico, poi, è il fatto che i vari paesi non possiedano le risorse necessarie per identificare e sorvegliare metodicamente più di qualche individuo[26]. Un caso emblematico è quello francese: in vari episodi, gli esecutori di un attacco terroristico erano già noti all’intelligence[27], ma monitorare sistematicamente e continuativamente le attività di un individuo è un’operazione dispendiosa – che richiede risorse non sempre accordate agli apparati di sicurezza. In Francia i soggetti segnalati per radicalizzazione sono circa 18.000[28]: una quantità significativa, che complica ancor di più il quadro. Riflessioni analoghe possono essere fatte per il caso britannico, in cui il numero di soggetti attenzionati ha raggiunto le 23.000 unità[29].
Misure adottate: l’approccio tradizionale
A livello giuridico, sono presenti varie sfide in relazione ai meccanismi a disposizione per affrontare il ritorno dei combattenti[30]. Da un lato, vi sono gli strumenti tradizionali dell’antiterrorismo, tesi al perseguimento del crimine; dall’altra, le misure più “soft”, tese alla riabilitazione degli ex foreign fighters. Non si tratta di due approcci contrapposti, bensì complementari. Attualmente, a livello complessivo, nei Paesi UE le misure tradizionali sembrano ancora prevalenti, anche se negli ultimi anni sono state gradualmente sviluppati strumenti per la riabilitazione.
a) Perseguimento del crimine
I vari paesi europei presentano quadri giuridici differenti; ad ogni modo, un problema comune è la raccolta di prove sufficienti che dimostrino la sussistenza del reato, ossia l’esecuzione di azioni terroristiche in un paese straniero. In particolare, è difficile recuperare prove nel luogo in cui operano i mujahidin (aree di conflitto con elevata instabilità), mentre la validità di informazioni presenti sui social media o reperite mediante l’intelligence è dibattuta. Alternativamente, è possibile perseguire reati quali il reclutamento per o il finanziamento di una data organizzazione terroristica[31]. Inoltre, vi sono paesi che, in una prima fase, non criminalizzavano il foreign fighting o l’adesione a gruppi terroristici; in vari casi, successivamente sono state approvate nuove leggi apposite, che però non sono applicabili retroattivamente[32]. In generale, qualora non si riesca a dimostrare la sussistenza di questi reati (legati al terrorismo in senso stretto), è possibile perseguire un soggetto per reati minori, ma la pena detentiva comminata potrebbe essere relativamente lieve[33]. Questo quadro è complicato da ulteriori problematiche, ad esempio la presenza di minorenni che hanno vissuto nelle aree controllate da Isis.
b) Misure amministrative
Sono state inoltre introdotte delle “misure amministrative” per i soggetti che rappresentano una minaccia per la sicurezza nazionale, in questo caso i reduci: tra queste, ad esempio, vi sono la revoca della cittadinanza o il divieto di ingresso nel paese di provenienza[34].
L’approccio tradizionale, dunque, presenta svariati limiti, tra cui la difficoltà nel raccogliere prove inconfutabili, ma anche il fatto che gli apparati di sicurezza dei vari stati risultano saturi, con risorse insufficienti per monitorare tutti i nuovi casi. Senza contare l’eterogeneità che caratterizza il gruppo dei foreign fighters – il che, naturalmente, richiede la predisposizione di misure ad hoc. Infine, un approccio incentrato unicamente sull’incarcerazione rischia di non essere lungimirante – poiché non elimina in via definitiva le problematiche associate ai reduci, ma semplicemente le differisce. Infatti, una volta scontata la propria pena in carcere, gli ex combattenti saranno rilasciati, e dovranno essere reinseriti nella società di riferimento; quindi, è necessario elaborare nuovi approcci, per la loro riabilitazione. Nemmeno queste tipologie di intervento, naturalmente, sono esenti da limiti e da sfide: ad esempio, servirebbero ulteriori studi e valutazioni in merito alla loro efficacia.
Gli strumenti di tipo “soft” si possono suddividere in due categorie: quelli incentrati sulla deradicalizzazione (deradicalization) e quelli per il disimpegno (disengagement). La prima tipologia comprende tutte quelle misure volte a far sì che l’individuo abbandoni le proprie vedute estremiste; la seconda, invece, mira a far sì che il reduce si astenga dalle attività terroristiche, non necessariamente abbandonando le proprie idee radicali. I percorsi orientati alla riabilitazione degli individui prevedono varie misure, tra cui l’assistenza psicologica del militante, l’affiancamento di una guida spirituale, ma anche attività ricreative o di formazione professionale[35].
Particolarmente interessante è il cosiddetto “modello Aarhus”, dal nome della città danese – basato su un meccanismo di early prevention per gli individui in via di radicalizzazione e di exit per quelli già radicalizzati. La partecipazione è volontaria, e sono previsti “3 livelli” di azione a seconda dello stadio in cui si trovano i soggetti: un primo livello è rivolto ai giovani; il secondo agli individui giudicati “estremisti”, ma non violenti; il terzo agli individui che sono in procinto di compiere o hanno già compiuto azioni criminali. Si spazia dal mentoring (in materia di istruzione, di lavoro, ecc.) all’assistenza familiare; dall’assistenza medica, all’assistenza per l’erogazione di servizi fruibili alla cittadinanza, nonché a programmi di exit su misura. Il modello si basa sulla collaborazione tra i vari enti e sulla condivisione di informazioni; a tal proposito, un ruolo fondamentale è svolto dalle InfoHouses, unità che riuniscono e coordinano attori tra cui polizia e servizi municipali. Un altro importante elemento è il Ssp, network che riunisce scuole, servizi sociali e polizia[36].
Anche in Italia, negli ultimi anni, sono emerse istanze orientate all’elaborazione di programmi di controradicalizzazione e deradicalizzazione. In particolare, lo scorso luglio è stata approvata alla Camera dei Deputati la nuova proposta di legge per la prevenzione della radicalizzazione, che si va ad affiancare a tutti quelli strumenti già citati (indagini, arresti, espulsioni, ecc.) – necessari, ma non sufficienti per il contrasto al fenomeno. Il disegno di legge introduce un Centro nazionale sulla radicalizzazione (Crad), con il compito di predisporre annualmente un Piano strategico nazionale per la prevenzione e il recupero; Centri di coordinamento regionali sulla radicalizzazione (Ccr), che diano attuazione a tale Piano; un Comitato parlamentare che monitori i fenomeni della radicalizzazione e dell’estremismo jihadista; poi, attività di formazione specialistica, interventi preventivi in ambito scolastico, progetti di formazione universitaria e post-universitaria, attività comunicative e informative e – infine – piani annuali per la deradicalizzazione dei soggetti coinvolti. In particolare, l’art. 11 affronta la questione della radicalizzazione nelle carceri, predisponendo “un piano nazionale per garantire ai soggetti italiani o stranieri detenuti un trattamento penitenziario che […] promuova la loro deradicalizzazione e il loro recupero, in coerenza con il Piano strategico nazionale[37].
[1] Malet li definisce come “non-citizens of conflict states who join insurgencies during civil conflicts”: D. Malet, Foreign Fighters: Transnational Identity in Civil Conflicts, New York, Oxford University Press, 2013, p. 9.
[2] Del resto, il fenomeno dei foreign fighters si è manifestato anche in contesti non segnati dall’ideologia islamista (si pensi alla guerra civile spagnola).
[3] E. Bakker e de Roy van Zuijdewijn. Jihadist Foreign Fighter Phenomenon in Western Europe: A Low-Probability, High-Impact Threat, The International Centre for Counter-Terrorism – The Hague, 2015, p. 2.
[4] B. Schuurman e L. van der Heide, Foreign Fighter Returnees & the Reintegration Challenge, RAN Issue Paper, Radicalization Awareness Network Centre of Excellence, novembre 2016, p. 1
[5] R. Barrett, Beyond the Caliphate: Foreign Fighters and the Threat of Returnees, The Soufan Group, ottobre 2017, pp. 10-11.
[7] B. Van Ginkel ed E. Entenmann (a cura di), The Foreign Fighters Phenomenon in the European Union. Profiles, Threats & Policies, The International Centre for Counter-Terrorism – The Hague, 2016, pp. 43 e 45.
[8] Il calcolo è stato effettuato facendo riferimento ai dati sulla popolazione indicati da Eurostat (2016), http://appsso.eurostat.ec.europa.eu/nui/show.do?dataset=demo_pjan&lang=en. Per quanto riguarda i combattenti italiani, sono state utilizzate le cifre ufficiali diffuse dal Ministero dell’Interno ad agosto 2017: http://www.interno.gov.it/sites/default/files/modulistica/dossier_15_agosto.pdf; nel caso portoghese, invece, il calcolo è stato effettuato utilizzando le cifre del 2016, indicate da B. Van Ginkel ed E. Entenmann (2016), p. 40. In tutti gli altri casi (Belgio, Austria, Svezia e Spagna), invece, si è fatto riferimento alle stime riportate in R. Barrett (2017), pp. 12-13.
[9] H. el-Said e R. Barrett, Enhancing the Understanding of the Foreign. Terrorist Fighters Phenomenon in Syria, United Nations Office of Counter-Terrorism, luglio 2017, passim. Lo studio prende in esame anche i combattenti provenienti da paesi non occidentali.
[10] L. Vidino, “European Foreign Fighters in Syria: Dynamics and Responses”, European View, vol. 13, n. 2, 2014, p. 220.
[12] R. Barrett (2017), p. 10. Secondo le valutazioni dell’intelligence statunitense, si è ridotto notevolmente anche il numero di combattenti che tentano di attraversare il confine turco verso la Siria: A. Reed, J. Pohl e M. Jegerings, The Four Dimensions of the Foreign Fighter Threat: Making Sense of an Evolving Phenomenon, The International Centre for Counter-Terrorism – The Hague, giugno 2017, p. 5. A livello personale, la decisione dei vari militanti di abbandonare il jihad siriano e tornare in patria è stata stimolata da numerosi fattori intrecciati, non sempre facilmente identificabili: ad esempio, elementi quali la disillusione, ma anche i ritmi imposti dalle asperità belliche, nonché il ruolo delle famiglie rimaste a casa, che desiderano il ritorno dei propri cari: cfr. H. el-Said e R. Barrett (2017), pp. 41 ss.
[13] R. Barrett, Foreign Fighters in Syria, The Soufan Group, 2014, passim; A. Reed, J. Pohl e M. Jegerings (2017), pp. 4-5; E. Bakker e de Roy van Zuijdewijn (2015), pp. 3 ss.
[14] T. Hegghammer, “Should I Stay or Should I Go? Explaining Variation in Western Jihadists’ Choice between Domestic and Foreign Fighting”, American Political Science Review, vol. 107, n. 1, febbraio 2013, p. 10; R. Barrett (2017), pp. 21 ss.
[15] L. Vidino, F. Marone e E. Entenmann, Jihadista della porta accanto. Radicalizzazione e attacchi terroristici in Occidente, Milano, Epoké-ISPI, 2017, pp. 66-67. Anche lo studio di T. Hegghammer riscontra una maggiore letalità dei reduci jihadisti negli attacchi terroristici: cfr. T. Hegghammer (2013), p. 11.
[17] Questa ipotesi è delineata da Hegghammer come fattore di criticità per i prossimi anni (e decenni): si veda T. Hegghammer, “The Future of Jihadism in Europe: A Pessimistic View”, Perspectives on Terrorism, vol. 10, n. 6, dicembre 2016.
[18] A. Reed, J. Pohl e M. Jegerings, “The Four Dimensions of the Foreign Fighter Threat: Making Sense of an Evolving Phenomenon”, cit., pp. 8-9
[19] Foreign fighters: An Updated Assessment of the Flow of Foreign Fighters into Syria and Iraq, The Soufan Group, 2015, p. 7.
[20] Cfr. H. el-Said e R. Barrett, “Enhancing the Understanding of the Foreign. Terrorist Fighters Phenomenon in Syria”, cit., passim; R. Barrett (2017), pp. 4-9, e 18ss. Si veda anche T. Hegghammer (2013). Lo studio condotto da el-Said e R. Barrett (2017) rileva anche motivazioni di carattere economico, tra le altre. Un altro fattore essenziale per comprendere come si plasmano le percezioni e le scelte di questi soggetti, poi, è il ruolo delle reti sociali e familiari.
[21] C.P. Clarke e A. Amarasingam, “Where Do ISIS Fighters Go When the Caliphate Falls?”, The Atlantic, 6 marzo 2017, https://www.theatlantic.com/international/archive/2017/03/isis-foreign-fighter-jihad-syria-iraq/518313/
[23] Council of the European Union, “Foreign terrorist fighter returnees: Policy options”, Note n. 14799/16, 29 novembre 2016, http://www.statewatch.org/news/2016/dec/eu-council-ctc-foreign-fighters-returnees-policy-options-14799-16.pdf. Proprio la cooperazione con la Turchia ha permesso d’intercettare numerosi militanti.
[25] E. Bakker, E. Entenmann e C. Paulussen, Dealing with European Foreign Fighters in Syria: Governance Challenges and Legal Implications, The International Centre for Counter-Terrorism – The Hague, dicembre 2013, pp. 5-6
[27] Prendendo in considerazione gli attacchi jihadisti eseguiti tra il 29 giugno 2014 e il 1° giugno 2017 in Europa e Nord America, si nota che l’82% degli attentatori era noto alle autorità: cfr. L. Vidino, F. Marone e E. Entenmann (2017), p. 65.
[28] “France’s domestic security operation ‘Sentinelle’ to undergo revamp”, France24, 22 agosto 2017, http://www.france24.com/en/20170822-frances-domestic-security-operation-sentinelle-become-more-mobile
[29] J. Hardy e H. Smith, “Security services ‘have investigated 23,000 people over terror fears’”, The Independent, 26 maggio 2017, http://www.independent.co.uk/news/uk/home-news/security-mi5-23000-subjects-interest-counter-terrorism-manchester-abedi-police-a7758671.html
[31] B. van Ginkel, Prosecuting Foreign Terrorist Fighters: What Role for the Military?, The International Centre for Counter-Terrorism – The Hague, 2016, pp. 7 ss.
[32] D. Walker (a cura di), “How real is the threat of returning IS fighters?”, BBC News, 23 ottobre, 2017, http://www.bbc.com/news/world-41679377. In questi paesi in cui è criminalizzato il foreign fighter, vi è un’ulteriore complicazione: eventuali fonti – utili per le indagini – potrebbero ritenere opportuno non esporsi, temendo ripercussioni: cfr. E. Bakker, E. Entenmann e C. Paulussen (2013), pp. 7 ss.
[33] A. Reed e J. Pohl, “Tackling the surge of returning foreign fighters”, NATO Review Magazine, 14 luglio 2017, http://www.nato.int/docu/review/2017/Also-in-2017/daesh-tackling-surge-returning-foreign-fighters-prevention-denmark-rehabilitation-programmes/EN/index.htm
[35] B. Schuurman e L. van der Heide, “Foreign Fighter Returnees & the Reintegration Challenge”, passim.
[36] Qualora vi siano timori in merito a un determinato soggetto, le InfoHouses se ne fanno carico, accertando la presenza di una minaccia e stabilendo la sua natura – cioè se è opportuno trattare la solo dimensione sociale o se, invece, occorre focalizzarsi sull’aspetto della sicurezza (affidando il caso al Centre for Prevention). Per un approfondimento si veda A.S. Hemmingsen, An Introduction to The Danish Approach to Countering and Preventing Extremism and Radicalization, Danish Institute for International Studies, København Ø, Denmark, 2015.
[37] Disegno di Legge, “Misure per la prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo violento di matrice jihadista”, approvato dalla Camera dei Deputati il 19 luglio 2017, http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/17/DDLPRES/1036546/index.html.