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Commentary

Il ruolo chiave delle élites religiose per lo sviluppo

18 giugno 2012

Il fallimento delle politiche di sviluppo e la debolezza delle istituzioni dello stato moderno in Africa sono sovente ascritti alla presunta inconciliabilità fra queste e un insieme di norme e valori genericamente definiti come “tradizione”. I paradigmi dominanti della modernizzazione e della secolarizzazione hanno storicamente determinato letture superficiali, a volte distorte, del ruolo della religione nel determinare l’azione collettiva e nel cimentare le istituzioni politiche e sociali, soprattutto con riferimento all’Islam.

Le élites religiose rivestono un ruolo fondamentale nel determinare l’azione individuale e collettiva in Africa, alimentando la lotta politica e contribuendo con meccanismi per lo più informali e non ortodossi al progresso sociale ed economico e a livelli variabili di redistribuzione della ricchezza. A lungo ignorate o sottovalutate dalle teorie dello sviluppo e dai programmi di cooperazione internazionale, le élites religiose hanno rivestito un ruolo fondamentale nel dare significato e nel riordinare il potere in Africa sub-sahariana. Se ciò è avvenuto soprattutto in contesti caratterizzati dalla debolezza delle istituzioni, anche in stati considerati stabili l’emergere di movimenti religiosi è spesso interpretato come un tentativo di affermazione di fonti o forme alternative di potere, critiche della legittimità di uno stato che ha fatto sue norme e istituzioni importate durante il periodo coloniale [1].

La collaborazione di coloro che detengono il potere spirituale è generalmente ricercata dalle élites politiche in Africa come forma di protezione e garanzia di successo nell’esercizio del potere. Il potere spirituale, a differenza di quello politico, si situa nel mondo dell’intangibile e dell’invisibile, assumendo spesso in Senegal i contorni del mistico. Secondo la letteratura, il principale fattore che spiega il successo del “contratto sociale senegalese” è costituito dalla capacità mostrata dalla Muridiyya [2], di promuovere un modus vivendi con l’autorità politica, in primo luogo coloniale. Assumendo la titolarità di una trasformazione eterodiretta, i marabut si sono inseriti nel vuoto politico, istituzionale e culturale determinato dalla fine degli stati e regni pre-coloniali in Senegambia, sapendo assumere e coniugare senza contraddizioni il ruolo di intermediari spirituali e allo stesso tempo politici ed economici. Come mediatori fra lo stato e la società senegalese, i marabut si sono inseriti nell’economia monetaria contribuendo allo sviluppo di reti commerciali aventi come centro la città santa di Touba.

L’indipendenza ha segnato in Senegal il passaggio dalla coesistenza pacifica a un’intima collaborazione fra il potere politico ed élites religiose, con precise indicazioni di voto fornite dai leader religiosi ai fedeli in occasione delle consultazioni politiche. Dotatosi di una costituzione laica, come gli altri stati della regione il Senegal ha assistito a una rapida islamizzazione, ma a differenza di molti fra questi non ha conosciuto gravi momenti di crisi istituzionale e sociale. La recente campagna presidenziale di Abdoulaye Wade, discepolo murid molto criticato al momento dell’investitura per essersi inginocchiato di fronte al Gran Khalife della confraternita, è stata caratterizzata da inediti scontri di natura religiosa facendo per la prima volta sorgere dubbi sulla tenuta del modello senegalese. Gli appelli alla calma sono arrivati, fra gli altri, da un giovane marabut, nipote del fondatore della confraternita murid, che ha invitato al ritiro immediato della candidatura di Wade e a un aperto posizionamento delle gerarchie religiose, sostenendo che nella città santa di Touba 86 marabut pregavano per l’uscita di scena del politico ottantaseienne. 

A prescindere dagli effetti destabilizzanti della religione sulle istituzioni, la commistione fra potere politico e spirituale contraddice i fondamenti del costituzionalismo moderno, venendo per questo considerata da molti osservatori come un ostacolo allo sviluppo e alla democratizzazione. In Africa più che altrove, l’analisi dei valori, delle credenze e di altre istituzioni informali facilita la comprensione degli sviluppi politici e sociali e dei fattori che determinano i comportamenti collettivi e gli esiti delle politiche pubbliche. Nella longue durée, prescindendo dalle manifestazioni deteriori, l’adozione delle istituzioni dello stato moderno e l’adesione sincretica alle grandi religioni monoteistiche in Africa hanno immesso in modo irreversibile il Continente nella storia globale. Per questo, possono entrambe essere interpretate come tasselli fondamentali in direzione della costruzione di una civiltà dell’universale.


[1] S. ELLIS – G. TER HAAR, Religion and politics in Sub-Saharan Africa, in «The Journal of Modern African Studies», vol. 36, n. 2, Cambridge University Press, 1998, pp. 175-201.

[2] La confraternita sufi Muridiyya si affermò fra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo per opera del fondatore originario di Diurbel Mame Cheikh Amadou Bamba, in parallelo con l’affermarsi della dominazione francese nell’attuale Africa occidentale francofona.

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Africa religione sviluppo
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