La zona cuscinetto a terra di nessuno, dunque di tutti: la destituzione del presidente egiziano Mohamed Morsi sta accelerando il peggioramento delle condizioni di sicurezza nel Sinai, da mesi avvitatosi in un’escalation di violenza. Se l’intero Egitto pare essere entrato in una fase cupa e confusa – nella quale gli stessi attori politici e religiosi sembrano incapaci di soppesare le conseguenze profonde delle proprie azioni – esistono almeno tre ragioni di ancora maggiore inquietudine per la penisola.
Innanzitutto, il Sinai deve fronteggiare un ulteriore vuoto di sicurezza, causato dal ridispiegamento massiccio delle forze di polizia sulla “terraferma”, in funzione di ordine pubblico. Come noto, il protocollo militare contenuto nell’accordo di pace fra l’Egitto e Israele, siglato nel 1979, limita l’impiego dei soldati del Cairo nella penisola (le zone B e C, centrale e orientale, sono demilitarizzate): ciò rende ancora più essenziale la disponibilità di corpi di polizia numericamente adeguati in frangenti di massima allerta, come l’attuale. Anche perché sono le stesse forze di sicurezza il bersaglio privilegiato degli integralisti locali: nelle ore successive alla rimozione di Morsi, almeno 5 poliziotti e 2 soldati hanno perso la vita in attacchi alla stazione di polizia di Rafah e ai presidi militari presso l’aeroporto di El-Arish, capoluogo del governatorato del Sinai settentrionale. Nei mesi seguiti alla caduta di Hosni Mubarak, il governo israeliano aveva consentito al Consiglio Supremo della Difesa (SCAF) egiziano di dispiegare truppe – con finalità difensive – anche nelle aree demilitarizzate.
La seconda motivazione d’inquietudine riguarda il salafismo, innervatosi nel tessuto tribale dell’area. Nella penisola del Sinai, periferica agli occhi delle autorità della capitale eppure centrale per numerosi attori regionali (Striscia di Gaza, Israele), il pensiero salafita è riuscito a radicarsi, a prosperare e in alcuni casi a saldarsi con formazioni che inneggiano al jihad. Giunto in questa terra negli anni Ottanta – grazie alla testimonianza di studenti ritornati dalle università del Nilo, nonché di uomini d’affari sauditi – il salafismo ha modificato i tradizionali equilibri intra-tribali: esso è riuscito a capitalizzare la frustrazione dei giovani, fino a contrapporli agli anziani, vicini al pensiero sufi. La conseguente frammentazione dei clan ha provocato un allentamento delle reti di solidarietà interne, permettendo alle cellule jihadiste di infiltrarsi. Inoltre, da un punto di vista tribale, non vi è alcun confine fra l’Egitto e i territori a est, dal momento che i beduini del Sinai – appartenenti a una trentina di tribù diverse – condividono forti legami etnici e linguistici con la Striscia di Gaza: ciò non fa che aumentare il senso di alterità degli abitanti della penisola nei confronti del Cairo, avvicinandoli invece alla lotta per la causa palestinese. Occuparsi di Sinai significa, oggi, avere a che fare con Hamas. La frequente chiusura del valico di Rafah ha consolidato le attività di contrabbando – soprattutto di armi – attraverso la penisola, trasformando l’economia informale “via tunnel” nel pilastro dell’interdipendenza economica (e politica) fra beduini e palestinesi della Striscia. I beduini egiziani (circa il 70% della popolazione della zona, cui va sommato un 10% di palestinesi) denunciano da decenni una condizione di discriminazione politica ed economico-sociale: esclusi dalle Forze armate, essi si sono visti spesso scavalcare dai lavoratori niloti (provenienti dalla valle del Nilo), che hanno beneficiato di migliori opportunità d’impiego nonché di accesso al welfare. Nessun esponente della comunità beduina figurava tra i membri dell’Assemblea costituente: ma la rabbia degli islamisti, che guardano alla rimozione di Morsi dalla presidenza come a una conquista rubata, rischia di trasformare il Sinai in una questione di insicurezza regionale, agendo da miccia rispetto a una serie di criticità presenti da tempo.
La penisola come trampolino nella lotta terrorista a Israele: è questo l’incubo di Tel Aviv, che ha da poco ultimato la costruzione di un muro lungo il Negev (150 km), nell’intento inoltre di contenere contrabbando e immigrazione clandestina proveniente dall’Africa sub-sahariana. L’omicidio del sacerdote cristiano copto Mina Aboud Sharween, avvenuto lo scorso 6 luglio a El-Arish, lascia presagire che anche l’elemento dell’intolleranza religiosa potrebbe mischiarsi all’ondata di collera islamista conseguente alla destituzione del presidente Morsi.
La terza ragione d’inquietudine riguarda i due asset strategici del Sinai: il turismo e le infrastrutture energetiche. Fino al 2010, essi hanno permesso alla penisola di registrare performance economiche migliori del resto del paese (alfabetizzazione, occupazione, reddito pro-capite, vedi UNDP Egypt Human Development Report, 2010), in un contesto però di forte diseguaglianza intra-regionale. Nonostante le rassicurazioni dei tour operator circa la sicurezza delle mete di vacanza nel mar Rosso, dallo scoppio dell’intifadha anti-Mubarak gli introiti legati al turismo, vitali per l’economia della penisola e dell’intero Egitto, hanno subito una grave flessione. In fondo, esistono due Sinai, come testimoniato dal voto alle presidenziali del 2012: il governatorato settentrionale, a forte connotazione tribale, che votò in massa per il candidato dei Fratelli Musulmani e quello meridionale, turistico e commerciale, che scelse Ahmed Shafiq, in segno di continuità con l’autoritarismo laico del deposto regime. La zona settentrionale della penisola è poi uno snodo energetico di rilevanza regionale: da qui passano le pipelines che trasportano il gas dal delta del Nilo verso Israele e la Giordania. Le milizie tribali, infiltrate dai jihadisti, attaccano i condotti gasiferi per costringere le autorità della capitale a cedere alle loro richieste economiche, oppure per ritorsione quando queste non vengono esaudite. La tensione centro-periferia impoverisce così il Sinai: Israele – per difendere la propria sicurezza energetica – ha cercato canali alternativi di approvvigionamento e di trasporto, mentre la Giordania è ancora energeticamente dipendente dalla penisola, tanto che l’attacco multiplo sferrato ai condotti gasiferi a sud di El-Arish il 7 luglio scorso ha provocato l’immediata interruzione della fornitura alla monarchia hashemita.
Sia l’autoritarismo laico di Hosni Mubarak che il governo islamista dei Fratelli Musulmani hanno trattato la “questione Sinai” seguendo il medesimo approccio securitario: lo storico disagio economico e sociale della popolazione beduina è sempre rimasto in secondo piano. In più, la necessità di mettere in sicurezza la penisola – anche per offrire a Washington una solida prova di leadership interna – ha notevolmente raffreddato i rapporti fra gli Ikhwan e Hamas. Dopo la rivolta del 2011, i beduini del Sinai hanno supplito al vuoto di potere centrale aumentando il ricorso agli istituti e alle prassi dell’Islam (come le corti di giustizia basate sull’applicazione della sharia). Paradossalmente, pur non sentendosi parte della nazione egiziana e coltivando un orgoglioso senso di alterità, il Sinai si trova oggi a contestare, in prima linea, la rimozione del primo presidente islamista democraticamente eletto.
La destituzione di Morsi potrebbe così essere il vettore capace di accelerare la deriva jihadista e qaedista della penisola: d’altronde, vi sono alcuni fattori (posizione geografica, erosione di sovranità, povertà individuale diffusa, tribalismo, tensione centro-periferia) che sovra espongono il Sinai – al pari di altre aree mediorientali, come lo Yemen – a un’evoluzione di questo tipo.