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Commentary

Il vento della Primavera soffia sul fuoco del conflitto israelo-palestinese

11 luglio 2011

Questo conflitto così radicato attorno al possesso della terra, ha attraversato indenne il cataclisma geopolitico della fine della guerra fredda. Una questione che alla fine non riguarda più di 13 milioni di persone e un territorio grande come l’Emilia Romagna, ha continuato la sua interminabile rissa, sorda alla scomparsa del bipolarismo, all’avvento della Cina come grande acquirente del petrolio mediorientale, al decennio clintoniano di bonanza economica e alla grande crisi finanziaria di questi ultimi anni.

Come potrebbe un evento ancora poco chiaro e solo abbozzato come la Primavera araba, diversa da paese a paese, influire decisamente sul conflitto israelo-palestinese, il più lungo della Storia? Israeliani e palestinesi sono in fondo conservatori: avrebbero preferito continuare ad avere a che fare con i vecchi regimi. Se Hosni Mubarak era il miglior protettore dell’Autorità nazionale di Abu Mazen, Bashar Assad lo era per Hamas a Gaza. Quanto a Israele, niente era meglio del vecchio Medio Oriente: egiziani, sauditi o siriani, amici o nemici, avevano tutti un ruolo certo e dunque prevedibile. Ora che le cose sono cambiate, stanno cambiando o potrebbero cambiare, israeliani e palestinesi continuano comunque come prima. Chi non vuole trovare una soluzione al conflitto continua a farlo più facilmente di prima; chi vorrebbe rimettere in moto un negoziato non sa come farlo.

Questo non vuol dire che israeliani e palestinesi resteranno nella loro palude, in un conflitto a intensità così bassa da sembrare convivenza. Al contrario. Settembre potrebbe già essere l’occasione per un nuovo ritorno di fiamma. Come è noto, costretti dalla volontà del governo Netanyahu di non fare nulla e dall’incapacità dell’amministrazione Obama di fare qualcosa, la Palestina chiederà di essere riconosciuta come stato dall’assemblea dell’Onu. Se potessero lo eviterebbero: nessun palestinese di Ramallah vorrebbe fare qualcosa contro gli Stati Uniti e i paesi europei più importanti che hanno preannunciato il loro voto contrario. E i palestinesi sanno che il si dell’assemblea generale non vuol dire sovranità il giorno dopo. Vanno al voto solo perché al mondo nessuna classe dirigente e nessun popolo in cerca di libertà, può continuare a restare passivo davanti al nulla. 

Ma il voto di settembre a New York sulla Palestina ci sarebbe stato anche senza la rivoluzione tunisina dei gelsomini e piazza Tahrir al Cairo. È un capitolo del conflitto fra israeliani e palestinesi, del tutto impermeabile alla Primavera araba. E se dopo il voto all’Onu i palestinesi dei Territori ancora senza uno stato inizieranno una rivolta pacifica, marciando a mani nude verso i posti di blocco, gli insediamenti israeliani e Gerusalemme, non lo faranno per imitare i giovani pacifisti egiziani. La scelta di una lotta disarmata, la battaglia per la creazione di istituzioni e un’economia nazionali, Abu Mazen e il suo premier Salam Fayyad la stanno facendo da più di tre anni. 

Se a una terza Intifada, disarmata, gli israeliani rispondessero con la forza come alla seconda che fu armata, i governi arabi provvisori o quelli sotto pressione sarebbero costretti a reagire in qualche modo. È vero che dal Cairo a Damasco le piazze chiedono libertà e democrazia nei loro paesi. Ma l’ostilità verso Israele e la popolarità della causa palestinese sono storiche e sotto traccia. In qualche modo si manifesterebbero. Gli egiziani non ignorerebbero la rivolta come fecero durante la guerra di Gaza del 2008; sicuramente il regime siriano ne approfitterebbe per distogliere l’attenzione dalle sue repressioni. Quali conseguenze concrete tutto questo potrebbe avere, è un’altra storia. Non si è mai visto un mondo arabo unito fare una guerra a Israele in nome dell’indipendenza palestinese.

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