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Blog @Americana

Il viaggio di Biden e la “tribù” atlantica

Mario Del Pero
16 giugno 2021

Quali obiettivi si poneva Joe Biden con questo viaggio europeo e i numerosi vertici – istituzionali e bilaterali – che lo hanno scandito? E quali sono le premesse che ispirano questo rinnovato atlantismo del Presidente statunitense, questo convincimento che è con gli alleati europei – con una “lega delle democrazie” che tanto ricorda il “mondo libero” della guerra fredda – che va costruito un fronte comune contro le sfide e le minacce del XXI secolo?

In estrema sintesi, possiamo individuare due grandi obiettivi, nei quali convergono fattori politici, strategici e, in una certa misura, “ideologici”.

Il primo è appunto quello di comunicare – all’opinione pubblica interna e a quella internazionale – che gli Usa sono pronti di nuovo a farsi carico delle loro responsabilità egemoniche globali. Contribuendo in modo decisivo a ripensare strutture e regole della governance globale e adattando le istituzioni esistenti, a partire appunto dalla NATO, alle nuove sfide con cui gli Usa e i loro alleati (e quindi, nella narrazione dominante, la “comunità internazionale”) debbono confrontarsi. Il viaggio, le dichiarazioni, finanche le posture stanno dentro una logica d’internazionalismo liberale, multilaterale, ma anche pragmatico se non realista, che questa amministrazione ambisce a incarnare e proiettare. È, nella retorica dominante, un”America che “torna nel mondo” quella di Biden. Ma è anche un’America meno naïf e ottimista rispetto a quella che, pre 2008 (o 2016), pensò che i processi d’integrazione globale fossero facilmente gestibili, funzionali agli interessi statunitensi e destinati anzi ad accompagnarsi all’estensione della democrazia e alla trasformazione ultima della Cina comunista. L’Atlantismo diventa insomma cifra e linguaggio di questo connubio d’internazionalismo e realismo, rinnovata assunzione della responsabilità della leadership globale e difesa senza sconti dell’interesse nazionale.

Il secondo obiettivo è di cooptare i partner europei in questa azione. Di convincerli che la convergenza transatlantica è indispensabile non solo rispetto a dossier facili e scontati – l’ambiente e la lotta al cambiamento climatico vengono subito in mente – o a elementi in una certa misura fondativi della Comunità Atlantica, come il contenimento della Russia/URSS. Ma che essa oggi serve, e va spesa, su scala globale e in risposta alla sfida fondamentale dell’ordine corrente: quella portata dalla Cina e, più in generale, da modelli autoritari che cavalcano abilmente le difficoltà delle democrazie europee e nord-americane. Ai partner europei, Biden promette non poco, anche su temi a loro cari: guida verso ambiziosi piani di riduzione delle emissioni nocive; coinvolgimento in alcune importanti iniziative globali, a partire dalla distribuzione dei vaccini; un impegno comune (sulla cui praticabilità è lecito peraltro nutrire dei dubbi) sulla fiscalità, con la proposta di una corporate tax mondiale; la forza senza pari di un mercato – un “impero dei consumi” – quello degli Stati Uniti, fortemente sollecitato dagli stimoli massicci che giungono dal governo federale, e ancor oggi importantissimo per tante economie export-led europee, incluse quella del paese più importante (la Germania) e dell’Italia. E però in cambio gli Usa chiedono tanto, tantissimo, forse troppo, come in modi diversi sia Macron sia Angela Merkel hanno con garbo ma fermezza fatto presente. E lo chiedono assecondati da una leadership della NATO che, almeno nella figura del suo Segretario Generale Jens Stoltenberg, sembrano davvero uscire dagli anni Cinquanta e dai picchi di tensione della Guerra Fredda. Per gli Usa cercare di usare la NATO e, in senso più lato, la Comunità Atlantica in funzione anti-cinese risponde chiaramente ad esigenze strategiche, politiche e in una certa misura elettorali. Riflettendo una convergenza in larga misura bipartisan negli Usa, Biden chiede agli europei – come è stato prima chiesto a Messico e Canada con la revisione del NAFTA – di collaborare in un’opera di esclusione e quasi segregazione della Cina nell’ordine globale. Per limitare gli investimenti cinesi nel mondo; per evitare il trasferimento di tecnologia sensibile e competenze strategiche verso la Cina; per ridurre gradualmente la presenza di Pechino dentro le catene transnazionali di produzione. Il tutto per impedire, sì, una crescita di potenza che potrebbe mettere in discussione il primato statunitense, in Estremo Oriente se non su scala globale; ma ancor più per circoscrivere il potere di condizionamento che ciò garantisce a Pechino: le tante condizionalità che ne derivano.

L’Atlantismo di Biden è insomma una manifestazione parziale e, verrebbe voglia di dire, quasi “de-globalizzata” d’internazionalismo. Mira a rafforzare ancor più un’interdipendenza, quella transatlantica, già contraddistinta da livelli d’integrazione e profondità che non hanno pari. Ma non in funzione di un parallelo rilancio dell’interdipendenza globale. Anzi, per usare la definizione offerta dallo storico Jeremy Adelman, sembra esprimere una logica d’interdipendenza asimmetrica e “tribale” storicamente spiegabile – con la volontà di preservare l’egemonia, con ragioni elettorali, con le acclarate responsabilità cinesi – e nondimeno inadeguata e forse addirittura pericolosa rispetto ai problemi dell’ordine mondiale corrente.

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Stati Uniti Joe Biden relazioni transatlantiche
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AUTORI

Mario Del Pero
ISPI e Sciences Po

Image credits (CC BY-NC-ND 2.0): NATO North Atlantic Treaty Organization

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