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Commentary
Immigrazione: da questione sociale a minaccia per la sicurezza
21 ottobre 2013

Il legame tra migrazioni e sicurezza è tutt’altro che scontato. Per lungo tempo, fino almeno alla crisi dell’assetto bipolare del mondo post-bellico, le migrazioni hanno continuato a essere tematizzate quale fenomeno di natura prevalentemente socio-economica, rimanendo ai margini degli interessi degli esperti di sicurezza. Negli ultimi decenni è tuttavia il concetto stesso di sicurezza a essere mutato. Nello scenario della società globale del rischio le minacce che lo stato si trova ad affrontare hanno una natura profondamente diversa dalla classiche minacce di tipo militare-strategico del passato e anche fenomeni come le migrazioni hanno potuto essere tematizzate attraverso uno schema interpretativo di tipo securitario. In un paese come l’Italia, che ha fatto a lungo fatica a pensarsi come “paese d’immigrazione”, è oggi del tutto normale l’associazione tra migrazioni e sicurezza, al punto che nel dibattito pubblico gli aspetti economici e sociali legati alla presenza degli immigrati passano decisamente in secondo piano, lasciando il centro della scena a una retorica che tende a enfatizzare l’idea del pericolo e della minaccia che l’immigrazione potrebbe a vario titolo rappresentare per il nostro paese.

Le scienze politiche e sociali contemporanee si riferiscono al concetto di “securitarizzazione” per descrivere il processo di costruzione sociale mediante il quale un determinato fenomeno viene progressivamente attratto nella sfera dei problemi e delle questioni relative alla sicurezza. Dal nostro punto di vista, si possono distinguere almeno tre differenti paradigmi di securitarizzazione delle migrazioni in Italia. 

In base al primo, il più classico, la migrazione è stata descritta come un pericolo per l’ordine pubblico e la sicurezza dello stato. In generale il legame tra migrazioni e aumento dell’insicurezza è qui istituito attraverso due linee argomentative fondamentali: una più strettamente associata con l’ordine pubblico interno dello stato, che punta l’accento sull’aumento del disordine urbano e della criminalità comune; un’altra associata al tradizionale discorso della sicurezza nazionale, che tende a legare le migrazioni con tutta una serie di minacce strategiche di natura transnazionale, come crimine organizzato e terrorismo internazionale. 

Il secondo paradigma vede invece le migrazioni come una minaccia di natura prevalentemente politico-identitaria. In base a tale prospettiva, la migrazione è supposta mettere in pericolo l’equilibrio etnico e culturale della società di destinazione, stimolando razzismo e radicalismo politico. Essa è vista in sostanza come un fattore di frammentazione sociale, di destrutturazione identitaria e d’incremento della violenza politica. 

L’ultimo paradigma, infine, guarda alla migrazione come a una minaccia di natura socio-economica. Gli immigrati sono spesso descritti come concorrenti illegittimi nel mercato del lavoro e profittatori dei benefici assistenziali offerti dai sistemi di welfare state dei paesi occidentali. Questa forma di welfare chauvinism, come l’ha definita Jef Huysmans, insiste molto sul pericolo che l’eccessiva presenza di immigrati possa scatenare conflitti per l’accesso alle risorse del welfare, mentre l’accesso indiscriminato alle stesse è visto come un fattore di attrazione per nuovi “profittatori”. L’uso di immagini evocative come quelle del “flusso” o dell’“invasione” contribuisce ad amplificare l’idea che le migrazioni rappresentino una minaccia per la tenuta del sistema socio-economico, traslando le incertezze sociali diffuse in sentimenti di odio e paura nei confronti degli immigrati e dei richiedenti asilo. 

Decisiva per il processo di securitarizzazione delle migrazioni è stata tuttavia la categoria dell’“immigrazione irregolare”. L’irregolarità non è altro che la disgiunzione tra l’autorizzazione dello stato ad attraversare la frontiera e la presenza individuale sul territorio in assenza di un titolo legittimante. Si tratta dunque di una violazione delle norme che disciplinano l’accesso al territorio dello stato, una tipica infrazione senza vittima che è stata nondimeno elevata al rango di minaccia alla sicurezza per il suo rilevante potenziale simbolico. L’irregolarità sembra infatti testimoniare l’inabilità dello stato a proteggere il suo territorio attraverso il controllo della frontiera e, dunque, rilancia l’idea di una sovranità diminuita che mina profondamente la credibilità delle istituzioni. Essa sembra tuttavia certificare anche la pericolosità sociale degli immigrati che, eludendo la sorveglianza dello stato e aggirando gli ordinari controlli di frontiera, sembrano eleggere volontariamente una condizione d’invisibilità sociale che desta, di per sé, sospetti. In quest’ultimo senso, l’irregolarità finisce per trasformarsi in una vera e propria caratteristica personologica dell’immigrato che lo qualifica come soggetto inaffidabile, in qualche modo portatore di rischio.

All’esito di tale processo di securitarizzazione, le migrazioni, in particolare quelle “irregolari” o “clandestine”, come si suole dire con un’espressione che enfatizza la pericolosità sociale del fenomeno, si sono dunque trasformate in una sorta di questione “meta-securitaria” in grado di attrarre attorno alla loro orbita una costellazione di altri discorsi sulle minacce all’ordine pubblico e alla sicurezza nazionale tipiche del mondo contemporaneo, quali i traffici illeciti transfrontalieri, il crimine organizzato, il terrorismo internazionale, la frammentazione sociale e l’instabilità politico-economica. I migranti sono stati ridefiniti come nuove minacce di natura strategica, giustificando l’introduzione di strumenti di controllo poliziesco, basti citare qui la detenzione amministrativa o i respingimenti in alto mare, che si situano decisamente ai margini del quadro costituzionale. Tale processo di securitarizzazione ha costruito nel pubblico una sorta di mentalità da “stato d’assedio” che ha consentito di legittimare la sistematica violazione dei diritti umani dei migranti perpetrata, come hanno numerose volte denunziato la Corte europea dei Diritti dell’Uomo e la Corte di Giustizia europea, nel quadro delle politiche italiane di contrasto all’immigrazione irregolare

 

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Giuseppe Campesi, ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Bari

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