Mai come nelle prossime elezioni presidenziali statunitensi il tema dell'immigrazione è stato centrale: uno dei perni su cui ruota l'intera corsa alla Casa Bianca. Questo per il gran numero di immigrati irregolari presenti negli Stati Uniti. I piani politici nei loro confronti saranno infatti fondamentali per orientare il voto ispanico: da una parte Trump si colloca su una posizione esplicitamente anti-immigrazione, dall'altra Hillary appare persino più a sinistra di Obama. Visioni agli antipodi, dunque, che confermano la centralità del tema nel dibattito elettorale.
"Costruirò un grande grande muro al confine meridionale... e lo costruirò senza spendere un penny. Sarà il Messico a pagare per quel muro". Era il suo primo discorso da candidato, e con questa frase Donald Trump lanciò la sua corsa, e definì il perimetro della campagna per la nomination repubblicana. Parole dure, dissennate per molti, eppure piano piano tutti i suoi contendenti hanno inseguito le sue posizioni, spostando a destra l'asse del dibattuto sull'immigrazione all'interno del Partito repubblicano.
Negli Stati Uniti vivono, secondo le stime, circa undici milioni di immigrati irregolari (l’80% dei quali arriva dall'America centromeridionale, oltre il 50% dal Messico). Nei primi anni della presidenza Obama, pur con notevoli differenze e sfumature tra democratici e conservatori, c'era un consenso piuttosto unanime sulla necessità di affrontare il problema consentendo a queste persone un "percorso verso la cittadinanza". Obama, che in campagna elettorale aveva promesso una riforma complessiva, decise di aspettare a farla con i repubblicani, aprendo alle loro richieste di rafforzare controlli e sicurezza: un numero record di agenti controlla il confine meridionale e dal 2009 sono in media quattrocentomila l'anno gli irregolari rispediti indietro, centocinquantamila in più che negli anni di Bush. Il numero di quanti attraversano il confine ha raggiunto il punto più basso da 40 anni (complice la crisi economica).
Nel 2013 il Senato votò il testo di una riforma bipartisan cui lavorò anche l'attuale candidato alla nomination GOP Marco Rubio. Il Partito repubblicano, scottato dalla sconfitta di Mitt Romney alle presidenziali 2012, si era convinto – o almeno se ne era convinta la sua parte più moderata – della necessità di riportare la barra al centro sul tema dei clandestini: Romney aveva perso il voto ispanico sonoramente, e i latinos rappresentano il gruppo di potenziali elettori che cresce più velocemente.
Ma poi la parabola di Eric Cantor, leader della maggioranza GOP alla Camera, battuto alle primarie per le elezioni di medio termine da uno sfidante semisconosciuto che lo aveva attaccato pesantemente proprio sulla sua presunta "morbidezza" sull'immigrazione, spaventò i colleghi di partito: la riforma non è mai passata alla Camera. Obama allora ha deciso di agire attraverso degli ordini esecutivi il cui perno è il Deferred Action for Parents of Americans and Lawful Permanent Residents (DAPA), destinato ai genitori di bambini nati sul suolo americano e quindi cittadini americani che, pur essendo entrati illegalmente nel paese, non avessero pendenze con la giustizia a partire dal 2010 (un'altra iniziativa lanciata nel 2012, il DACA, era invece destinata ai cosiddetti Dreamers, gli irregolari giunti negli Stati Uniti ancora bambini insieme ai genitori). Il DAPA, garantendo a queste persone lo status di "azione posticipata", avrebbe offerto loro la possibilità di fare domanda per un lavoro regolare e per la patente di guida: un provvedimento che avrebbe coperto oltre tre milioni e seicentomila individui, più del 30% degli irregolari presenti sul suolo americano. Ma un paio di settimane dopo il Texas e due dozzine di altri stati hanno impugnato l'azione della Casa Bianca. A decidere in ultima istanza sarà la Corte Suprema, ma anche nel caso di un via libera, Obama potrebbe non avere più tempo per implementare il piano prima della fine del suo mandato.
Lo stallo nell'azione di governo e la retorica elettorale in campo repubblicano farebbero pensare che per gli irregolari la "strada verso la cittadinanza" sarà ancora molto lunga. Ma non è detto che le cose stiano così. Vincente nell'elettorato di base repubblicano, il sentimento anti immigrati è in realtà minoritario nel paese. Secondo un sondaggio del Pew Research Center del giugno scorso, la stragrande maggioranza degli americani, il 72%, ritiene che agli immigrati che vivono negli Stati Uniti privi di documenti dovrebbe essere consentito di restarci legalmente rispettando precisi requisiti. Certo, resta il fatto che per il 63% dei repubblicani gli immigrati sono un peso per il paese (opinione condivisa dal 32% dei democratici), ma la popolazione nel suo insieme mostra un’attitudine positiva nei confronti dell'immigrazione.
Trump, che in barba al 14° emendamento vorrebbe anche abolire il diritto di cittadinanza per nascita, stampato nel dna della nazione americana, va ripetendo che gli irregolari portano "droga, crimine, sono stupratori..(!)", ma le statistiche compongono un quadro molto diverso: il tasso di criminalità tra gli immigrati di prima generazione è più basso di quello che si riscontra nella popolazione nel suo insieme. Tra gli americani maschi senza un diploma di scuola superiore un 11% finisce in carcere, tra i messicani, guatemaltechi e salvadoregni con lo stesso livello di istruzione la percentuale scende tra il 2 e il 3%.
La retorica anti immigrati – violentissima nei confronti dei musulmani: Trump ne ha proposto il bando temporaneo dal paese – sembra pagare in una fetta ristretta dell'elettorato: è vero che l'81% di chi vota il magnate pensa che l'immigrazione danneggi il paese, ma stiamo parlando di una minoranza, almeno per il momento, degli elettori repubblicani.
A novembre, che sia Trump il candidato del Grand Old Party, o uno dei suoi sfidanti più accreditati, Marco Rubio e Ted Cruz, che l'hanno inseguito su questo terreno, la chiusura sull'immigrazione potrebbe invece costare cara a chi sfiderà i democratici e quindi quasi certamente Hillary Clinton, che sul tema è persino più a sinistra di Obama: l'ex segretario di Stato invoca infatti "un percorso per la piena e uguale cittadinanza".
Perché esiste un fattore che nessun candidato alla presidenza può ignorare, come insegna Obama, il quale ci ha costruito la strada per la vittoria: la demografia. I repubblicani pensano di poter controbilanciare l'eventuale emorragia di voti tra ispanici e asiatici americani (che non solo crescono più velocemente dei latinos e sono destinati a sorpassarli entro il 2065, ma rappresentano già il gruppo razziale con il livello di istruzione e reddito più alto), motivando l'elettorato bianco preoccupato da una ripresa troppo lenta, da salari insoddisfacenti e dalla minaccia del terrorismo. Ma se l'elettorato bianco rappresentava l'86% del totale nel 1984, già nel 2012 era sceso al 72%, e Romney perse le generali di quattro punti pur vincendo il 59% del "voto bianco". Come scrive David Brooks sul New York Times, mentre il Partito repubblicano si va "ingrigendo" – la sua base è composta sempre più da anziani che hanno una visione negativa dei fenomeni migratori – l'America si va scurendo: entro il 2044, la maggior parte degli americani apparterrà a una minoranza.
A prescindere da chi vincerà a novembre, il GOP per non diventare residuale dovrà imparare a parlare a questa nuova America.
Marilisa Palumbo, Corriere della Sera