Manfuhah, quartiere meridionale di Riyadh abitato soprattutto da africani dell’est (etiopi, eritrei, somali), è stato nei giorni scorsi teatro di scontri fra la polizia e gruppi di immigrati costretti al rimpatrio, come previsto dalla nuova legge sul lavoro. Secondo il racconto delle forze di sicurezza della capitale, gli agenti sono intervenuti dopo che alcuni expatriates avevano attaccato, con coltelli e pietre, esercizi commerciali del quartiere, mettendo a rischio l’incolumità degli abitanti: ora gli immigrati coinvolti nei tafferugli si troverebbero in un campo di raccolta, in attesa dell’espulsione. Questa è la versione che i media sauditi hanno dato dell’accaduto (come il canale Al-Arabiya e Saudi Gazette, il quotidiano di Jedda), sottolineando come «la campagna di sicurezza» delle squadre d’ispezione del ministero del Lavoro e degli Interni abbia l’obiettivo di «scovare chi viola la legge sul lavoro e la residenza». Come spesso in questi casi, non esistono numeri certi: vi sarebbero almeno due morti, tra cui un cittadino saudita, oltre 70 feriti e più di 500 persone arrestate (notizie diffuse dalla polizia). Il ministro degli Affari Esteri dell’Etiopia ha però denunciato l’uccisione di tre suoi connazionali durante le proteste di Riyadh, dichiarando che il governo di Addis Abeba si è formalmente lamentato con le autorità del regno wahabita.
Le manifestazioni dei lavoratori stranieri in Arabia Saudita permettono di aprire una finestra su uno spaccato di Penisola arabica spesso trascurato: il rapporto fra i rentier-state e le comunità immigrate. Dopo mesi di moratoria concessa agli stranieri per regolarizzare il loro status, gli emendamenti alla normativa saudita sul lavoro sono ufficialmente legge. D’ora in avanti, potranno rimanere nel regno solo gli expatriates che lavorano per il loro primo datore di lavoro (lo sponsor), cui il permesso di soggiorno è collegato. È il “sistema a sponsor” detto kafala (“garanzia” in arabo), diffuso peraltro in tutta la Pe-nisola: chi nel frattempo ha cambiato impiego o lo ha perduto, è considerato un clandestino e deve lasciare l’Arabia Saudita, pena il pagamento di una multa, la detenzione fino a due anni, o l’espulsione diretta.
La revisione della legge sul lavoro ha un obiettivo specifico: diminuire il tasso di disoccupazione fra i cittadini sauditi, stimato oggi al 12%. Nove dei 27 milioni di abitanti dell’Arabia Saudita sono infatti stranieri, soprattutto africani del Corno, yemeniti e asiatici (pachistani e indiani su tutti). Il tentativo di “saudizzazione del lavoro privato”, a fronte di un settore pubblico ormai saturo, va incontro, però, ad almeno tre ostacoli. Innanzitutto, la riformulazione della normativa sta già producendo l’aumento del costo del lavoro, perché un lavoratore saudita costa più di un asiatico o di un africano. Quando il sultano del vicino Oman – per placare le proteste del 2011 – ha deciso l’incremento del salario minimo dei lavoratori privati nazionali fino al 40% (proprio grazie a un prestito saudita), molti datori di lavoro hanno preferito licenziare gli omaniti e assumere manodopera straniera. Il secondo ostacolo, quello della produttività, si lega poi al nodo delle competenze. Il sistema formativo saudita fatica a soddisfare le richieste provenienti dal mercato del lavoro interno: gran parte dei giovani del regno non possiede la specializzazione adeguata a svolgere gli impieghi finora monopolizzati dagli immigrati (come nel caso del settore edile). Sempre nel sultanato dell’Oman, la costruzione del porto commerciale di Sohar, nella settentrionale valle della Batinah, ha creato consistenti opportunità di lavoro non per la manodopera nazionale, bensì per quella straniera. Pertanto, la diminuzione del numero di expatriates sul territorio non implica necessariamente un aumento dell’occupazione fra i sauditi. E soprattutto, non garantisce la tenuta della produttività. Anche nel regno degli Al-Sa‘ud l’esperienza delle due città industriali del petrolchimico, Jubail nel Golfo Arabico e Yanbu sul Mar Rosso, pioniere della diversificazione non-oil, ha prodotto maggiore occupazione per gli stranieri che per i sauditi. Il terzo ostacolo riguarda infine il divario fra tipologie d’impiego offerte e ambizioni personali. I giovani dell’Arabia Saudita, specie nei centri urbani, aspirano a lavori più qualificati e socialmente pre-stigiosi rispetto a quelli svolti oggi dagli immigrati (si pensi ai lavori domestici o di assistenza), anche perché la maggioranza è in possesso di titoli di studio universitari.
Le nuove politiche del lavoro di casa Al-Sa‘ud potrebbero avere pesanti ricadute regionali. Il provvedimento sta infatti irrigidendo i rapporti fra il regno e il vicino Yemen: lavorano in Arabia Saudita tra gli 800 mila e il milione di yemeniti. Le rimesse dei lavoratori provenienti dalla repubblica arabica rappresentano un’ancora di salvezza per la fragile economia di Sana’a (la Banca Mondiale stima a 1,4 miliardi di dollari l’anno le rimesse complessive degli yemeniti, pari al 4% dell’intero Pil). Anche se vi sono dati discordanti, gli yemeniti toccati dal provvedimento si attesterebbero fra i 300 mila e i 500 mila; solo negli ultimi dieci giorni 30 mila persone avrebbero oltrepassato la frontiera tra i due paesi per fare ritorno in Yemen. Manifestazioni di protesta si sono svolte già quest’estate a Sana’a e in altre città yemenite.
I diritti umani sono infine un nodo irrisolto nel rapporto fra immigrazione e lavoro nella Penisola arabica. Qui, sviluppo industriale e sicurezza umana paiono due concetti ancora agli antipodi. Dopo le recenti polemiche sullo sfruttamento dei lavoratori stranieri nei cantieri per i Mondiali di calcio del 2022 in Qatar, l’inviato delle Nazioni Unite per i Diritti umani si trova a Doha per discutere del tema degli abusi sul posto di lavoro (sono molti gli sponsor che trattengono il passaporto dei loro assunti, che può quindi trasformarsi in una facile arma di ricatto). A riguardo, il Consiglio dei ministri saudita ha approvato in agosto una bozza di legge che istituisce il reato di abuso domestico; secondo Human Rights Watch, tale misura non contiene però meccanismi per l’effettiva applicazione. Fa riflettere che l’Arabia Saudita sia fresca di nomina in Consiglio per i Diritti umani delle Nazioni Unite, insieme alla Cina e a Cuba (ma c’è il precedente della Libia di Gheddafi). L’integrazione delle comunità immigrate all’interno del tessuto sociale e urbano non ha mai costituito una priorità per le monarchie del Golfo (si pensi ai quartieri-compounds dove tanti stranieri vivono), ma sta divenendo una questione non più aggirabile, anche in termini di ordine pubblico. Tuttavia, com’è possibile immaginare dignità e tutele per gli immigrati regolari, laddove anche i cittadini sono costretti a muoversi all’interno dello stretto perimetro politico e sociale disegnato dal rentier-state?