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Kashmir e cittadinanza

India: donne e religione nell’agenda nazionalista di Modi

Emanuela Mangiarotti
17 febbraio 2020

Uno sguardo attento all’intrecciarsi di questioni di genere e religione in India può far luce sulle dimensioni meno visibili ma fondamentali a sostenere il progetto di state-crafting e di leadership politica alla base delle recenti mosse del governo guidato da Narendra Modi. La recente assimilazione dell’ex stato del Jammu e Kashmir si collega in questo senso ad altre misure legislative che stanno caratterizzando l’agenda politica del secondo governo Modi. In entrambi i casi, sono in gioco diritti di cittadinanza, la costruzione di una nuova identità nazionale indiana e il suo impatto sui rapporti di forza a livello domestico e regionale.
 

La politica del governo Modi nel Kashmir 

Quello del Kashmir è un territorio esteso. Suddiviso in aree controllate rispettivamente da India (Jammu e Kashmir e Ladakh), Pakistan (Azad Kashmir e Gilgit Baltistan) e Cina (Aksai Chin), si trova da almeno 70 anni al centro di dispute territoriali, intrise di retoriche nazionaliste e orientate da interessi economici e strategici. Al contempo, la Valle del Kashmir, la parte più popolosa dell’ormai ex stato del Jammu e Kashmir è teatro – dalla fine degli anni Ottanta – di uno sfaccettato, altalenante e mai sopito movimento indipendentista.

Il 5 agosto 2019, il governo indiano guidato da Narendra Modi – leader del Bharatiya Janata Party, partito della destra nazionalista indù – ha revocato gli Articoli 370 e 35a della Costituzione. Questi attribuivano all’ex stato del Jammu e Kashmir uno statuto speciale che includeva una costituzione e una bandiera separate, posti riservati per impieghi pubblici e borse di studio e diritti di proprietà esclusivi per i nativi kashmiri. Quest’ultima clausola era volta a prevenire l’acquisto di terre da parte di indiani non kashmiri e preservare così i rapporti demografici nell’unico stato dell’Unione a maggioranza musulmana. Oltre alla revoca dei suddetti articoli, il 5 agosto il governo indiano ha cancellato lo stato dalla mappa politica, smembrandolo in due Union Territories (unità amministrative controllate direttamente dal governo centrale di New Delhi) del Jammu-Kashmir e Ladakh. La mossa è stata preceduta dall’evacuazione di turisti e pellegrini dalle zone turistiche dello stato, l’invio di un massiccio contingente di forze armate che si è andato ad aggiungere alla cospicua presenza già esistente, l’imposizione del coprifuoco, l’oscuramento di tutti i mezzi di comunicazione telefonica e internet e l’arresto preventivo di esponenti di spicco della politica, della cultura e della società civile.

La popolazione ha vissuto per quasi tre mesi in un isolamento totale. Nonostante l’allentamento di alcune misure, il controllo delle telecomunicazioni, la militarizzazione e la limitazione degli scambi economici, delle iniziative culturali e delle interazioni sociali restano tutt’oggi pervasive. Le notizie che trapelano raccontano di abusi e violenze nei confronti degli abitanti della Valle da parte delle forze armate, che negano le accuse sostenendo invece di proteggere la popolazione dalla violenza di terroristi separatisti. Nel frattempo, la militanza armata ha trovato una nuova spinta organizzativa, adottando misure anche violente per prevenire qualsiasi accenno di ripresa di attività economiche e sociali che potrebbe in qualche modo legittimare la mossa del governo indiano. In questo contesto, il 27 settembre 2019, durante l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il Primo Ministro pakistano Imran Khan ha condannato la mossa di New Delhi, definendola contraria agli accordi di Simla del 1972 secondo i quali la disputa territoriale tra i due stati si sarebbe dovuta risolvere in modo pacifico e attraverso accordi bilaterali. Polemizzando il totale silenzio di Narendra Modi al riguardo, Khan ha paventato il rischio di un “bagno di sangue” e di un’escalation del conflitto tra due potenze nucleari.

 

Il BJP e la “colonizzazione” del Kashmir: cosa c’entrano le donne?

Benché abbia colto molti analisti e osservatori di sorpresa, l’intervento del governo indiano nel Kashmir fonda le sue radici nell’ideologia nazionalista dell’Hindutva, che anima le organizzazioni della destra nazionalista indù da cui provengono il Primo Ministro Narendra Modi e buona parte dei suoi ministri. In quel senso, la posizione del Bharatya Janata Party (BJP) rispetto all’autonomia del Jammu e Kashmir è stata negli anni coerente, proponendo l’integrazione come condizione necessaria a liberare il Kashmir e la sua popolazione dai movimenti separatisti e terroristici sostenuti dal Pakistan.

Bisogna ricordare che la politica di New Delhi è da sempre colorata di richiami ai “confini naturali” e fondata su un insieme di metodi coercitivi, ingerenza politica, incentivi economici e repressione violenta di istanze separatiste. Tuttavia, le ultime mosse del governo Modi sono state salutate da ministri e sostenitori con toni trionfalistici di conquista che hanno suscitato indignazione e preoccupazione tra gli oppositori del BJP e buona parte della popolazione della Valle. La scrittrice e attivista Arundhati Roy, in un articolo sul New York Times del 15 agosto 2019 ha sottolineato che “il passaggio dell’atto [di revoca degli articoli 370 e 35a] è stato salutato in Parlamento dalla tradizione tipicamente britannica di battere la mano sul tavolo. C’era un chiaro sentore di colonialismo nell’aria. I padroni erano contenti che una colonia recalcitrante fosse stata finalmente, formalmente, riportata sotto la corona. Per il suo stesso bene, ovviamente”.

In effetti, diverse dichiarazioni del Primo Ministro e di ministri e parlamentari del BJP in proposito risuonano in modo sinistro con una retorica tipicamente coloniale. Auto-investitosi di una sorta di missione civilizzatrice, Modi l’8 agosto 2019, ha elencato i vantaggi che l’amministrazione diretta di New Delhi porterà in Kashmir, sorvolando sulle conseguenze che il blocco delle comunicazioni, delle attività economiche e quella che è a tutti gli effetti una militarizzazione totale stanno già avendo sulla vita quotidiana e le attività economiche in Kashmir.

A uno sguardo attento, i toni paternalistici di cui si è ammantata la retorica assimilazionista, hanno messo a nudo il lato fondamentalmente misogino della politica nazionalista del BJP. Al centro della missione salvifica del governo Modi sono infatti finite le donne kashmire, dipinte come vittime inermi del patriarcato islamico. Anche in questo caso, vi è una certa continuità nella retorica della destra induista che da sempre utilizza le disuguaglianze di genere per raccogliere consensi in chiave anti-musulmana. Facendo riferimento all’abrogazione dell’articolo 35a secondo cui le donne kashmire che sposavano uomini non residenti perdevano la proprietà della terra e il diritto ad acquisirla, il governo indiano si è proposto come salvatore delle donne. Tale discorso è passato nei media nazionali nonostante una sentenza dell’Alta Corte del Jammu e Kashmir avesse già sostanzialmente reso nulla tale clausola garantendo i diritti di proprietà delle donne kashmire indipendentemente dal loro stato civile.

Parallelamente, vari leader del BJP hanno rilasciato dichiarazioni – riprese poi da diversi sostenitori online – che senza troppi veli hanno mostrato come la politica nazionalista della destra induista nel Kashmir passi attraverso l’appropriazione dei corpi delle donne. Un parlamentare del BJP ha così commentato l’annessione del Kashmir: “i membri del partito sono molto felici; gli scapoli potranno sposarsi là [nel Kashmir]. Non ci sono più restrizioni ora. Prima esistevano diverse atrocità nei confronti delle donne. Se una donna del Kashmir si sposava con un uomo dell’Uttar Pradesh, la sua cittadinanza veniva revocata. Esistevano due cittadinanze diverse per l’India e per il Kashmir. I musulmani dovrebbero esultare: possono sposarsi con le donne Kashmire dalla pelle chiara. Tutti dovrebbero festeggiare, sia indù che musulmani. Dovrebbero esserci festeggiamenti in tutto il Paese”. Sulla stessa linea, il 10 agosto, CM Khattar, governatore dello stato indiano dell’Haryana, ha dichiarato che “ora che il Kashmir è aperto, le fidanzate saranno prese da lì. A parte gli scherzi, se si migliora il rapporto demografico tra uomini e donne nel nostro stato, allora si ristabilirà un equilibrio nella società”.

Queste dichiarazioni, in continuità con quelle che giustificano la mossa del governo indiano come un atto di liberazione delle donne del Kashmir, sono spesso trascurate nelle analisi politiche, in particolare quando l’attenzione si focalizza sulle ricadute dell’annessione in termini di sviluppo economico e modernità. Trascurarle tuttavia significa perdere di vista come il controllo dei corpi delle donne sottenda a un progetto di state-crafting e leadership nazionalista che permea l’agenda politica dell’India nei confronti del Kashmir, dei musulmani indiani e dei rapporti con i Paesi vicini, con risvolti potenzialmente inquietanti per i diritti di cittadinanza e la sicurezza nella regione.

 

Religione, genere e cittadinanza: la nazione secondo Modi

Per contestualizzare la politica di Modi in Kashmir è necessario uno sguardo ad altre misure che stanno caratterizzando il suo secondo mandato alla guida del Paese. Mentre il governo evita di entrare nel merito delle critiche riguardo la sua politica economica a fronte del peggior rallentamento dell’ultima decade, sta dall’altro puntando su un’esplicita politica nazionalista anti-musulmana, mai così palesemente esplicitata da esponenti di spicco del BJP e attuata attraverso provvedimenti legislativi.

L’assimilazione del Kashmir si inserisce quindi in un susseguirsi di misure che definiscono nettamente i contorni della cittadinanza indiana e chi ne detiene il controllo e stabilisce le regole, mandando anche chiari messaggi ai Paesi limitrofi. Nell’agosto del 2019 è stato implementato nello stato dell’Assam al confine con il Bangladesh il National Register of Citizens (NRC), che prevede la revoca della cittadinanza a chi non riesca a dimostrare una residenza antecedente al marzo 1972 (anno in cui il Bangladesh dichiarò l’Indipendenza dal Pakistan). La misura è da molti considerata un modo per identificare i “musulmani bangladesi” e colpisce in particolare le donne povere che faticano a produrre la documentazione necessaria a provare i legami di parentela con la famiglia d’origine. Il ministro degli interni Amit Shah non ha esitato a dichiarare che un provvedimento simile potrebbe essere implementato a livello nazionale.

A questa misura è seguita l’approvazione lo scorso 11 dicembre del Citizenship Amendment Act. Il provvedimento dispone misure preferenziali per l’ottenimento della cittadinanza indiana a migranti irregolari appartenenti a minoranze religiose induiste, sikh, buddisti, jainiste, parsi e cristiane perseguitate in Pakistan, Bangladesh e Afghanistan. L’atto, che esclude esplicitamente i musulmani, è stato salutato da ondate di proteste massicce ancora in corso contro ciò che viene percepita come una politica discriminatoria su base religiosa.

Buona parte delle manifestazioni sono guidate da donne, soprattutto a New Delhi dove nelle ultime settimane il BJP si è giocato senza successo le elezioni per l’assemblea legislativa. E anche in questo caso, esponenti di spicco del BJP non hanno esitato ad infiammare il dibattito con dichiarazioni misogine, arrivando addirittura a incitare allo stupro e altre violenze specifiche nei confronti delle dimostranti. Anche se diverse donne indù si sono unite alle proteste, si tratta principalmente di donne musulmane. Inoltre, mentre le donne in prima fila nei movimenti di protesta vengono denigrate come anti-nazionali e pericolose sovversive, Modi invoca il sostegno delle “madri della nazione”, definendo l’appartenenza nazionale delle donne sulla base del grado di adesione, organicità e consenso rispetto alle politiche del governo. Misoginia e paternalismo non sono quindi incidentali ma costitutivi delle aspirazioni nazionaliste del governo Modi e devono mettere in guardia rispetto alle implicazioni che il processo di integrazione del Kashmir e le recenti leggi sulla cittadinanza possono avere per i diritti delle minoranze e gli equilibri a livello regionale.

In questo scenario, la risposta di Stati Uniti e Unione Europea è rimasta piuttosto timida. Sia il Presidente Trump, che ha dapprima pubblicamente approvato la mossa di New Delhi in Kashmir per poi sostenere le richieste di mediazione del Primo Ministro pakistano Imran Khan, che l’Unione Europea hanno mostrato un atteggiamento del tutto ambivalente. Lo scorso novembre un gruppo di parlamentari dell’estrema destra europea in visita in India sono stati eccezionalmente condotti in un tour del Kashmir prima di incontrare di persona il Primo Ministro Modi. Smentendo che si trattasse di una visita ufficiale, gli stessi hanno comunque rilasciato dichiarazioni che suffragavano la versione dal governo indiano riguardo alla situazione nella Valle e celebravano lo sforzo dell’India nella lotta al terrorismo islamico.

Successivamente, a gennaio di quest’anno, dopo aver presentato diverse risoluzioni che condannavano la legge sulla cittadinanza e l’intervento in Kashmir, il Parlamento europeo ha deciso di rinviare a fine marzo la votazione al riguardo. Tale decisione pare condizionata dall’incombente visita di Modi a Bruxelles in occasione dell’India-EU summit di marzo ed è stata comunque salutata come una vittoria diplomatica dal governo indiano. Per Modi entrambe le questioni restano centrali per dettare i termini del dibattito politico interno e la propria immagine internazionale soprattutto nell’attuale contesto di stagnazione economica che sta colpendo fortemente sezioni già svantaggiate della popolazione e la sua base elettorale.

A queste categorie, la manovra economica recentemente annunciata dalla ministra delle finanze Nirmala Sitharaman offre poche vie d’uscita concrete. Le misure volte a risollevare la domanda interna paiono infatti poco incisive mentre l’adozione di politiche protezionistiche risuonano con la retorica nazionalista del governo e il suo apparente scetticismo rispetto ad accordi bilaterali e regionali di libero mercato.

Modi è stato finora in grado di coinvolgere larga parte del suo elettorato attraverso un immaginario di speranza e orgoglio nazionale. Tuttavia, la sua capacità di cristallizzare il dibattito su retoriche nazionaliste che normalizzano rassicuranti gerarchie sociali basate su genere e religione sta rivelando le prime crepe. Alcuni stati dell’Unione cominciano infatti a mostrarsi recalcitranti rispetto ad alcune scelte del governo Modi. Allo stesso tempo, le tensioni politiche e sociali che stanno attraversando varie aree del Paese a partire dal Kashmir ci raccontano di una capacità di espressione del dissenso sfaccettata ma imponente, che sta mettendo a nudo le debolezze del governo e portando allo scoperto le implicazioni della sua retorica misogina e anti-musulmana.

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AUTORI

Emanuela Mangiarotti
Università di Genova

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