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Commentary

India: i due anni più duri di Modi

Ugo Tramballi
29 luglio 2020

È accaduto anche negli Stati Uniti, in Israele, perfino nell’efficiente Corea del Sud. Superata l’emergenza sanitaria, grazie al lockdown, l’urgenza successiva era rimettere in moto l’economia. Ma in una dinamica che durerà a lungo – fino a che non sarà trovato e distribuito il vaccino – se non hai messo sotto controllo la pandemia e circoscritto ogni nuovo focolaio, una riapertura prematura permette al virus di tornare, costringendo l’economia a fermarsi di nuovo.

È successo in molti luoghi del mondo. Anche in India. Ma qui il problema è ancora più grave che altrove. Quando la Banca Mondiale ha creato la definizione di “new poors”, per indicare il costo sociale del virus, le sue vittime economiche, pensava soprattutto all’India. A causa di una crescita che rimaneva lontana dalle percentuali del recente passato, già prima della pandemia circa la metà degli indiani, cioè 650 milioni di persone, viveva pericolosamente vicina alla soglia di povertà. Nel Subcontinente esistono tre livelli: quello della povertà estrema, 1,90 dollari al giorno; quelli da 3,20 e 5,50 dollari al giorno. Gli indiani che già vivono in queste tre fasce di povertà sono fra 230 e 380 milioni.

Annunciando un nuovo pacchetto economico, il 15 maggio il premier Narendra Modi aveva lanciato il suo ennesimo slogan; “Atma Nirbhar Bharat”, la nazione autosufficiente. Come ogni altro paese, anche l’India rivedeva le sue aspettative sulla globalizzazione. Sembrava il ritorno a una forma più moderata ed equilibrata dello Swadeshi, il lato economico della lotta di liberazione nazionale anti-inglese. Ma Atma Nirbhar non ha intenzione di boicottare i prodotti e ancor meno gli investimenti internazionali: è solo il tentativo di incentivare mercato e produzione interni in un’epoca straordinaria come questa.

Ma, poche settimane dopo gli effetti di un prematuro ritorno alla normalità seguito a un lockdown e a un distanziamento sociale difficili da garantire in un paese come questo, il virus è pericolosamente tornato. Con oltre 674mila casi, nei primi giorni di luglio, l’India è diventato il terzo paese al mondo per numero di contagi dopo Stati Uniti e Brasile. Gli stati più colpiti sono quelli fra i più importanti per l’industria, la finanza e i commerci del paese: il Maharashtra, Delhi, il Gujarat, il Tamil Nadu.   Il governo è stato costretto a reimporre alcuni lockdown regionali, fermando di nuovo diverse attività economiche.

Come spiega Chang Yong Rhee, il direttore del Dipartimento Asia-Pacifico del Fondo Monetario Internazionale, “il principale rischio per la crescita dell’India è la continua diffusione della pandemia perché la crisi sanitaria non è ancora stata contenuta. Ulteriori focolai potrebbero richiedere altre chiusure”. Un risultato di questo genere “potrebbe frenare la fiducia dei consumatori e ritardare la ripresa”. Che comunque appare piuttosto lontana. Secondo l’FMI nell’anno finanziario iniziato nel marzo di quest’anno, la crescita si contrarrà del 4,5%: la più grave dal 1961. La situazione della pandemia, e di conseguenza dei suoi effetti economici, è così volatile che solo poche settimane prima la Banca Mondiale calcolava una perdita contenuta al 2%. L’agenzia di rating Fitch, invece, prevede per quest’anno una contrazione del 5% che nel 2021-22 sarà dell’8-9,5%. Questi dati e una dose di panico aiutano a spiegare perché il governo aveva deciso di riaprire il paese, pur sapendo che la pandemia non era sotto controllo.

Già quando a primavera era stato imposto il lockdown, l’anno finanziario precedente si era chiuso con segnali preoccupanti: si prevedeva, ed è stata confermata, una crescita ridotta al 4,2%. Ma nell’ultimo trimestre che coincideva con l’inizio della diffusione del virus, la crescita era stata solo del 3,1% principalmente a causa della grave crisi degli investimenti e di un deficit fiscale al 4,6%. Durante il lockdown il governo aveva incautamente promesso che in due mesi anche l’economia indiana avrebbe ripreso a ruggire. Ora, secondo gli esperti, due anni sarebbero un’ipotesi ottimistica. La disoccupazione è al 25% ed è difficile programmare aiuti economici efficaci in un mercato del lavoro nel quale nove indiani su dieci sono occupati nell’economia informale.

E poi c’è il difficile rapporto con Pechino. L’India stava aprendo la sua quinta fase di riapertura economica a singhiozzo, quando d’improvviso l’evanescente frontiera himalayana è tornata ad essere un punto d’attrito pericoloso con la Cina. Gli scontri sono stati contenuti dalla diplomazia ma diventa sempre più evidente che Pechino abbia ambizioni ormai incontenibili e che Delhi debba rivedere il suo profilo internazionale. Che governassero i socialisti del Congress o i nazionalisti hindu del Bjp, storicamente il paese aveva sempre rifiutato di entrare in qualsiasi sistema di alleanze. La sua partecipazione al fronte dei Paesi non allineati, del quale l’India fu uno dei promotori, non costituiva un’alleanza. Non potendo sostenere da sola la pressione cinese, l’India sta già sviluppando rapporti molto stretti con Giappone, Australia, Stati Uniti e i molti paesi preoccupati dall’espansionismo di Pechino. Ma allo stesso tempo l’India non può fare a meno della Cina che da sola costituisce un terzo del suo intero export. Nel 2018 l’interscambio in crescita era stato di 89,6 miliardi di dollari con 62,9 miliardi di deficit a favore dei cinesi. Settori interi e avanzati come gli impianti di energia solare e la telefonia, sono quasi interamente controllati dai cinesi. “Atma Nirbhar Bharat”, l’India farà da sé, promette Narendra Modi. Ma non è questo il momento di boicottare la Cina.

 

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Co-Head, ISPI Centre on Business Scenarios

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Ugo Tramballi
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