“L'avversità partorisce grandezza”, sostiene il filosofo buddista Daisaku Ikeda, molto letto in India.
Sono difficili da dimenticare le migliaia di pire sulle quali venivano rapidamente cremate le vittime del Covid. L'eccessiva autostima del governo nazionalista hindu di Narendra Modi; i consigli degli scienziati sostituiti dai precetti dei sadhu; le feste religiose di massa ammesse per ottenere facili consensi in tempo di elezioni ma anche di Covid, avevano reso ancora più tragica la prevista ondata della pandemia: quella dalla quale la variante Delta si sarebbe diffusa nel resto del mondo.
Accadeva solo la scorsa primavera. In qualche modo quelle immagini che rappresentavano un disastro organizzativo, corrispondevano allo stereotipo che in Occidente continuiamo ad avere dell'India. Ad aprile il collasso sembrava senza vie d'uscita. A maggio le cose avevano invece incominciato a cambiare: dal primo giorno di quel mese al 5 di giugno le dosi somministrate erano passate da quasi 157 a 231 milioni; a 507 milioni all'inizio di agosto. Poi il balzo di settembre.
In un solo giorno, il 17, sono state somministrate 25,16 milioni di vaccini: dall'Himalaya a Kanyakumari, cioè capo Comorin nel Tamil Nadu, la punta più meridionale del Subcontinente. E' stata la parte più gloriosa di una campagna chiamata “One Nation, One Jab: anywhere, any place” che dal suo inizio era riuscita a distribuire e inoculare un totale di 750 milioni di dosi. Probabilmente un record mondiale, data l'opacità su ciò che accade in Cina nella lotta al virus come in molti altri campi.
A metà del mese 600 milioni d'indiani avevano ricevuto la prima dose e 200 milioni erano completamente vaccinati. L'obiettivo ora è raggiungere i due miliardi di vaccini: due dosi per i 900 milioni d'indiani dai 18 anni in su. Ma si sta valutando di abbassare la soglia dei più giovani: la popolazione indiana è di quasi 1,4 miliardi. Il governo promette di raggiungere due miliardi di dosi entro dicembre e non sembra un'ambizione eccessiva. Al momento vengono mediamente somministrate fra quattro e cinque milioni di dosi al giorno.
I vaccini sono interamente indiani, prodotti con una collaborazione tecnologica internazionale. Orografia, infrastrutture e la diversità di Pil fra uno stato e l'altro dell'Unione indiana non semplificano la logistica necessaria per distribuire i vaccini in tutto il territorio nazionale. Ma tutto sta andando con una rapidità inusuale per il grande pachidermaasiatico.
Il merito del successo ha un nome: tecnologia digitale. O meglio, la piattaforma Co-WIN, cioè Covid-19 Vaccine Intelligence Network. O per andare alle origini, Aadhaar, il sistema di dodici cifre che identificano un miliardo e 300 milioni d'indiani e 240 milioni di nuclei familiari. Nel 2009 il governo del Congress guidato da Manmohan Singh aveva incaricato Nandan Nilekani di avviare la transizione digitale del gigantesco corpo sociale indiano. Nilekani era il co-fondatore di Infosys, l'equivalente indiano di Microsoft. Il primo utilizzo di Aadhaar fu per garantire un'equa distribuzione di bombole di gas da cucina per le famiglie più povere.
Fino a che era all'opposizione, la destra nazional-religiosa del Bjp di Modi non apprezzava le qualità del nuovo sistema, considerandolo uno strumento del governo per controllare gli avversari. Potenzialmente lo era ma Aadhaar è stato un potente veicolo per la modernizzazione del paese che ora anche Narendra Modi sta utilizzando. La tecnologia digitale ha accelerato la funzionalità del sistema pensionistico e ridotto il potere della burocrazia; in sei anni, dal 2015 ad oggi, i conti bancari sono passati da 125 a quasi 450 milioni.
Il sistema d'identificazione biometrica, una gigantesca sorveglianza digitale, ha un suo eventuale lato oscuro anche nelle democrazie. Il Bjp sempre più potente senza una credibile opposizione nazionale, e il grande consenso popolare di Narendra Modi, apparentemente inattaccabile, potrebbero aumentare la tentazione di un uso sbagliato. Ma ora quello che conta è la grande impresa dei due miliardi di vaccini.