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Commentary
India: a rischio un’occasione unica
Ugo Tramballi
05 febbraio 2021

C'è un nuovo e inaspettato leader nella lotta globale contro la pandemia e nella distribuzione dei vaccini: l'India. Nonostante un sistema sanitario di non prima qualità, l'impossibilità di garantire un minimo distanziamento sociale in un Paese di 1,3 miliardi di abitanti, un sistema di trasporti e infrastrutture arretrati, l'India sta lentamente vincendo la sua battaglia.

 

La probabile vittoria contro la pandemia

Un paio di settimane fa è iniziata una campagna di vaccinazione che conta di raggiungere 300 milioni di indiani entro agosto. E mentre la propaganda di Pechino è impegnata a presentare la Cina come il leader globale della risposta alla pandemia (per far dimenticare di esserne stata la fonte), New Delhi ha già incominciato fisicamente a consegnare vaccini ai Paesi vicini: Nepal, Bagladesh, Bhutan, Sri Lanka e con molta più reticenza il Pakistan. Una strategia geopolitica che prima era solo cinese in questa regione: l'India era sempre stata riluttante ad assumere un ruolo di leadership nel Subcontinente e nel resto dell'Asia meridionale.

In un anno quasi 11 milioni di indiani sono stati contagiati. Ma i dati sono poco credibili. Secondo gli esperti indiani, in metropoli sovraffollate come Delhi, Mumbai e Pune più della metà degli abitanti è entrata in contatto col virus. Nello stato meridionale del Karnataka (64 milioni di abitanti) si sarebbe contaminato il 44% della popolazione nelle aree rurali e il 54% in quelle urbane.

Ciononostante, i casi stanno calando e in India si stanno già sviluppando forme d'immunità di gregge. Più del piano di vaccinazione iniziato da troppo poco tempo per essere già efficace, la forza dell'India è l'industria farmaceutica e la sua capacità di essere una guida nella “frugal economy”: la produzione di beni qualitativamente alti ma a costi estremamente bassi, compatibili con il mercato domestico e attraenti per quello internazionale.

A fine gennaio, al World Economic Forum di Davos il Primo ministro Narendra Modi ha fatto un discorso trionfalistico, già annunciando la vittoria sul virus. Considerazioni però pericolosamente premature: una nuova ondata pandemica potrebbe smentirlo.

 

Il crollo dell’economia e un rimbalzo inaspettato

Tuttavia, anche sul fronte economico la situazione per il momento è difficile ma non disperata. Il Central Statistics Office che a giugno aveva calcolato una contrazione del 23,9% nel primo trimestre, ora la riduce al 7,5 sull'arco dell'intero anno. L'economia formale ha avuto un inaspettato rimbalzo grazie alle buone notizie sui vaccini. I consumi crescono ma il settore dei servizi va male, come in ogni Paese del mondo.

Nirmala Sitaram, la ministra delle Finanze, aveva anticipato che per affrontare le conseguenze economiche della pandemia, avrebbe presentato al Parlamento “un Bilancio come non l'avete mai visto prima”. Qualche giorno prima l'annuale Economic Survey, frutto del lavoro di molti ministeri e molte istituzioni, aveva ricordato che “i re indiani costruivano palazzi durante carestie e siccità per garantire lavoro e far crescere le fortune economiche del settore privato”.

Non era una citazione storica ma un'esortazione che il primo febbraio, presentando il budget nazionale, Nirmala Sitaram ha raccolto. La contrazione prevista attorno al 7% nell'anno fiscale in corso (con termine a fine marzo), nel prossimo sarà sostituita da una crescita dell'11% come conseguenza di una massiccia campagna vaccinale, della ripresa degli investimenti e dei consumi. Sommato all'11% la risalita dal meno 7,5 del punto di partenza, l'anno prossimo la crescita indiana avrà dimensioni uguali a quelle gloriose della Cina degli anni '90 e 2000.

A febbraio dell'anno scorso il deficit fiscale indiano era il 3,5% del Pil; ora è al 9,5%. Questo dimostra, ha ricordato Sitaram, che “abbiamo speso, abbiamo speso, abbiamo speso”. Ed è stato solo un inizio. Secondo il nuovo bilancio, entro i prossimi cinque anni l'Unione indiana spenderà circa 28 miliardi di dollari in incentivi all'industria manifatturiera; una trentina per la sanità, il 137% più di quanto previsto dal budget dell'anno precedente; e il 35% in più per le infrastrutture: strade, energia elettrica, ponti, porti. Lo Stato disinvestirà per 23 miliardi di dollari dal settore pubblico: verrà venduta Air India, privatizzate assicurazioni e banche. Alla fine dell'epoca post-pandemica – è l'obiettivo finale – l'India sarà ciò che aspira a essere dall'inizio delle riforme degli anni '90: una potenza economica. E probabilmente anche geopolitica.

 

I problemi strutturali del Paese

Come sostiene il Fondo Monetario Internazionale, uscire economicamente bene o male dalla pandemia dipenderà molto dalla condizione in cui i Paesi erano prima che scoppiasse. È per questo che i problemi dell'India incominceranno dopo: quando dovrà affrontare gli stessi ostacoli che la grande crisi del Covid aveva in qualche modo congelato e che il nuovo bilancio ha sottolineato, indicandone parzialmente le soluzioni.   Un anno fa l'India stava affrontando il più serio rallentamento dell'ultimo trentennio: cioè da quando Manmohan Singh avviò le prime grandi riforme. La crescita faticava a raggiungere il 5%.

Quando l'allora ministro delle Finanze del Congress presentò il suo piano senza precedenti dall'indipendenza del 1947, per aprire il Paese al mondo, furono gli industriali privati a opporsi. Riunitisi nel Club di Bombay (la città si chiamava ancora così), e guidati da Rahul Bajaj, temevano di non poter sostenere la concorrenza occidentale. Si sbagliavano: in pochi anni l'industria privata indiana avrebbe conquistato fette importanti del manifatturiero europeo e americano. Il successo all'estero la rese anche più forte e decisiva in India, soprattutto nella definizione delle politiche industriali dei governi.

A dicembre dell'anno scorso, nell'ultima edizione dei Med Dialogues organizzati da Ispi e Farnesina, chiesi al ministro degli Esteri Subrahmanyam Jaishankar se “Self-reliant India”, il programma per l'autosufficienza economica proclamato dal premier, non assomigliasse ad “America First”: per molti versi Modi e Trump si assomigliavano. “No - rispose Jaishankar -. Noi non chiediamo ai nostri industriali di tornare a investire in India”.

Aveva ragione. Il problema infatti è l'opposto: come convincere gli stranieri ad andare a investire in India con le stesse percentuali di cui la Cina ha goduto prima della pandemia; e come impedire che la grande industria indiana, sempre più potente, non chiuda le porte alla concorrenza straniera, boicottandone gli investimenti. Probabilmente anche dopo l'incubo del Covid, Pechino continuerà a vantare primati importanti. Ma è sempre più evidente la tendenza del mercato globale a cercare un'alternativa importante all'eccessiva dipendenza della catena di approvvigionamento, svelata dalla pandemia e resa ancora più pericolosa dalle ambizioni cinesi.

L'India rischia di perdere una grande opportunità perché, a dispetto dagli impegni presi dal Bilancio presentato da Nirmala Sitaram, fatica a realizzare le riforme di nuova generazione: sulla bancarotta degli istituti di credito, la trasparenza finanziaria, le strategie fiscali, il sostegno alla trasformazione digitale, l'agricoltura, il commercio al dettaglio. Sono le riforme più profonde che hanno un prezzo sociale iniziale da far pagare all'elettorato o ai centri di potere consolidati. È un limite che aveva il partito Congress da sinistra e ora ha il Bjp da destra.

A dispetto della collocazione ideologica, Modi e il suo partito sembrano essere più riluttanti del vecchio Congress. Almeno prima della pandemia, il Bjp sembrava più interessato alla costruzione di una nazione hindu-centrica, diversa dal modello laico dei Nehru-Gandhi, che a sostenere con determinazione lo sviluppo economico. Nel primo e poi nel suo secondo mandato, iniziato un anno e mezzo fa, le riforme non erano la priorità per Modi.

Il fallimento di quelle sull'agricoltura potrebbe avere aumentato in lui questo scarso interesse. L'anno scorso il governo aveva approvato tre leggi che rivedevano l'economia agricola del Paese, largamente sussidiata e regolata dallo Stato, aprendola alla competizione privata. Da mesi gli agricoltori, soprattutto i sikh del Punjab, il granaio indiano, protestano contro la riforma. Nonostante l'offerta di congelare per 18 mesi le leggi, a fine gennaio gli agricoltori hanno quasi bloccato la parata militare di Delhi che celebra la Repubblica indiana. Presentando il Bilancio, la ministra Sitaram ha promesso che le tre leggi verranno interamente ridiscusse.

Quello dell'esecutivo del Bjp di Modi non è il solo nazionalismo che fa dubitare gli investitori stranieri sull'opportunità di sostituire la Cina con l'India come nuovo grande hub. C'è anche il nazionalismo economico dell'impresa privata. L'anno scorso, giusto un mese prima dell'inizio della pandemia, Jeff Bezos era venuto in India a proporre un grande investimento commerciale da un miliardo di dollari e un milione di posti di lavoro: fu attaccato e insultato dal ministro del Commercio e da Mukesh Ambani, il più grande imprenditore del Paese, proprietario di Reliance Industries. Se non alla vecchia maniera, con lo strumento della joint venture o acquistando quote di minoranza d'imprese controllate dagli imprenditori locali, in India non si entra. Con questi strumenti resta difficile sostituirsi alla Cina.

 

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AUTORI

Ugo Tramballi
Senior Advisor, ISPI

Image credits (CC BY-NC-ND 2.0)

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