Ad un anno dallo scoppio della pandemia, il mondo è cambiato, evolvendosi rapidamente: la chiusura forzata ha portato a un’accelerazione necessaria dei modelli online e digitali, a vantaggio della sopravvivenza delle imprese e della loro sostenibilità di breve periodo. Abbiamo visto insegnanti applicarsi fino a tarda ora su Classroom per organizzare le loro prime lezioni totalmente virtuali; anziani cercare l’aiuto dei nipoti per prenotare il proprio turno in posta tramite un’applicazione; dipendenti pubblici e privati utilizzare nuovi strumenti per portare a compimento le loro attività. E questa non sarà una realtà passeggera, ma definirà i nuovi modelli di business del futuro e, quindi, il nuovo modo di lavorare: due dipendenti su tre, sia in Europa che in Italia, si aspettano di lavorare da remoto più spesso del solito nella nuova normalità).
Dobbiamo però tenere bene a mente che, come sottolineato dal Ministro per l’Innovazione Tecnologica e la Transizione Digitale Vittorio Colao, l'Italia è uno dei Paesi in Europa con il maggior digital divide e solo il 42% dei nostri connazionali tra i 16 e i 74 anni possiede competenze digitali di base contro il 58% in Europa. La sfida che ci si pone davanti non è dunque affatto banale: garantire l’uguaglianza digitale è un imperativo, oggi più che mai.
La necessità di upskilling e reskilling: i driver del cambiamento
Per prosperare nella nuova normalità è fondamentale ripensare tutti i modelli economici e sociali che conosciamo, partendo proprio dal Capitale Umano: secondo il WEF, nei prossimi 5 anni sarà necessaria un’importante attività di upskilling e reskilling per circa il 50% dell'attuale popolazione di lavoratori. “Costretti” dalle restrizioni e dalle nuove esigenze imposte dalla pandemia, il 60% dei lavoratori di tutto il mondo ha imparato nuove competenze necessarie per adattarsi alla nuova normalità, mentre il restante 40% si definisce ancora in difficoltà nell’era digitale in ambito lavorativo.
Dati importanti che rendono necessaria un’accelerazione. Ma quali sono le ragioni, i driver, che generano l’esigenza di innovare le competenze del Capitale Umano per un’impresa?
- In primis la digitalizzazione, che ha innescato l’esigenza di reskilling con una serie di cambiamenti già in atto prima dell’arrivo della pandemia. Ancor prima delle modalità di lavoro, a cambiare sono stati i processi operativi, sempre più automatizzati e con un potenziale di crescita esponenziale: prima del 2020 infatti, si stimava che “circa l’80% dei processi aziendali manuali potenzialmente automatizzabile era ancora non scoperta”, a dimostrazione del fatto che in futuro molti lavori potrebbero scomparire o rinnovarsi, a beneficio di professioni e ruoli che sappiano utilizzare al meglio la tecnologia. Si stima infatti che le imprese italiane nel periodo 2019-2023 ricercheranno tra i 275 mila e i 325 mila lavoratori con specifiche competenze relative anche all’Impresa 4.0. Da una recente ricerca Deloitte emerge, inoltre, che i dirigenti si stanno allontanando progressivamente dalla semplice adozione dell'automazione di processi per spostarsi verso una revisione completa dell’interazione tra lavoratori e tecnologia. L’ottica è quella che persone e tecnologia sono elementi abilitanti che lavorano in sinergia e con logiche di integrazione piuttosto che di sostituzione.
- Non solo digitalizzazione, ma anche sostenibilità. Organizzazioni pubbliche e private si stanno muovendo in questa direzione, destinando specifici fondi alla definizione di nuove strategie che abbiano la sostenibilità (ambientale, sociale ed economica) al centro. Ciò si traduce in una crescente necessità di risorse con delle forti competenze in questo ambito: se ci focalizziamo solo sull’ecosostenibilità, è stato stimato che nel quinquennio 2019-2023 le sole imprese italiane avranno bisogno tra i 519 mila e 607 mila lavoratori per cogliere al meglio le opportunità di processi produttivi sostenibili. Sempre più spesso però i processi di innovazione e quelli di sostenibilità tendono a convergere e risulterà fondamentale per le aziende dotarsi di figure nuove con competenze adeguate a una funzione così trasversale, come ad esempio un Chief Innovability Officer.
- Infine, la centralità del cliente impone sempre di più alle aziende di saper cogliere i desideri della collettività, analizzarli e soddisfarli. È qui che le nuove discipline STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics) trovano la loro perfetta collocazione. La richiesta di lavoratori specializzati nelle Intelligenze Artificiali, ad esempio, sta crescendo rapidamente, arrivando a sfiorare a Singapore il 2,4% di tutte le ricerche di personale. La strada da fare però è ancora tanta: solo uno studente universitario su quattro è iscritto a facoltà STEM (il 27% del totale), creando così un importante gap tra domanda e offerta di competenze sul mercato.
Tra i tre driver intercorre, spesso e volentieri, un rapporto di complementarietà e le imprese dovranno innovare il proprio Capitale Umano tenendo conto, contemporaneamente, delle tre necessità. La Computational Sustainability ne è un esempio: questa nuova disciplina riguarda l’uso di tecniche computazionali per risolvere problemi legati allo sviluppo sostenibile (ambientale, sociale ed economico). L’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale e delle nuove competenze delle discipline STEM serve, in questo caso, ad analizzare e comprendere l’enorme quantità di dati che la digitalizzazione ci mette a disposizione e, di conseguenza, a prendere decisioni strategiche importanti che abbiano un impatto su una tematica oggi centrale – per le imprese, per i clienti e per la società tutta - come quella della sostenibilità. Sarà quindi sempre più indispensabile nel futuro formare figure che sappiano da un lato utilizzare al meglio le nuove tecnologie e dall’altro sappiano sfruttare le opportunità offerte dall’innovazione per generare progresso sostenibile ed etico.
Competenze specifiche e trasversali
L’innovazione e la digitalizzazione dei modelli e, più in generale, il progresso legato alle nuove priorità collettive sono stati inevitabilmente tra i fautori della rischiosa disuguaglianza digitale e della necessità di una forza lavoro rinnovata. L’innovazione però, se utilizzata nella maniera più adeguata, può essere la risolutrice del problema, comportandosi come alleata e offrendo soluzioni concrete. Durante l’isolamento forzato il 15% del campione (mondiale) ha impiegato il tempo per seguire corsi di formazione online, sfruttando le potenzialità offerte dal digitale per arricchire il proprio bagaglio di competenze.
Le attività di training virtuali rappresentano sicuramente il presente dei processi di “rinnovamento” della forza lavoro, soprattutto per le competenze più specifiche e tecniche di alcuni ruoli, e potrebbero rappresentarne anche il futuro. Posizionare l’individuo al centro di questi nuovi processi virtuali sarà la chiave di successo, ponendo particolare accento sugli employee journey, esperienze vissute dai dipendenti nei processi di apprendimento, crescita e miglioramento. In quest’ottica, l’innovazione antropocentrica sarà lo strumento da un lato in grado di individuare i nuovi bisogni di dipendenti ed aziende e, dall’altro, capace di rispondere con strumenti nuovi e adeguati.
Nel futuro del lavoro però non saranno necessarie solo competenze specifiche, ma anche e soprattutto competenze soft. I lavoratori del domani dovranno possedere anche delle abilità trasversali come la capacità di creare, collaborare e adattarsi ai mutamenti, la cosiddetta “resilienza”. A conferma di questo trend, il 70% delle grandi imprese oggetto di una ricerca del 2019 ha dichiarato di adottare iniziative di Open Innovation per mettere i dipendenti al centro delle decisioni strategiche e dei processi di innovazione dell’azienda, con impatti decisivi sulle skills dei propri dipendenti e delle communities esterne all’azienda: un'impresa su tre (32%) organizza Call4Ideas, Call4Startup e contest; il 27% promuove Hackathon, Datathon, Appathon.
Il futuro del lavoro: ibrido, inclusivo e antropocentrico
Il futuro del lavoro sarà indiscutibilmente ibrido e di questo le imprese dovranno essere consapevoli: passata la fase critica della pandemia – purtroppo ancora molto attuale – bisognerà riorganizzare i nuovi modelli, considerando in contemporanea rischi ed opportunità derivanti dai mutamenti post-Covid e da tutti quei processi in atto già prima della pandemia. Nel farlo, non si potranno dimenticare le necessità degli individui ma, anzi, sarà necessario ricalibrare le riorganizzazioni attorno alle nuove necessità dei singoli.
Anche il reskilling, il rinnovamento delle competenze lavorative, sarà sinonimo di una profonda rivoluzione sociale: bisognerà cambiare il modo di vedere le proprie risorse umane e la loro crescita, valorizzandone il potenziale e mettendo a disposizione strumenti nuovi, atti ad abilitare tale rivoluzione. Strumenti innovativi, antropocentrici e sostenibili, che siano in grado di formare una forza lavoro competente ma agile, pronta al cambiamento, propensa alla collaborazione e alla generazione di nuovi progetti ed idee.
Digitalizzazione e coesione sociale rappresentano due dei pilastri fondanti del Next Generation EU e, in un’ottica di progresso sostenibile dell’Unione Europea, sarà chiave per i Paesi far convergere questi due obiettivi, evitando che l’uno possa andare a scapito dell’altro. Un’Europa – e un’Italia – più digitale e sostenibile ma anche più inclusiva, nella quale nessuno è lasciato indietro e dove l’innovazione antropocentrica è il motore per una ripartenza dal via, tutti insieme, tutti con le stesse possibilità. È questo quello a cui dobbiamo ambire, come singoli ma, soprattutto, come collettività.