Il laconico comunicato con cui il 3 di giugno il primo ministro libico, Abdullah al-Thani, annunciava l’attesa svolta, capace di risollevare la Libia dal caos, peccava probabilmente di ottimismo. «Abbiamo ricevuto in consegna i terminali di Ras Lanuf e di Es Seder. Senza ricorrere all'uso della forza. Dichiaro ufficialmente che questa è la fine della crisi petrolifera» aveva dichiarato al-Thani, visibilmente soddisfatto, da Ras Lanuf.
Rispetto ai precedenti accordi, tutti falliti, questa volta c’erano i presupposti perché le cose potessero andare diversamente. Il fatto che i terminali fossero effettivamente consegnati alle forze governative era già una novità. Considerando poi che a presenziare alla cerimonia c'era in persona Ibrahim Jidran, il carismatico leader di una delle milizie più potenti della Libia orientale, rendeva l’annuncio del premier più credibile. Era stato proprio lui, un anno fa, a decidere la chiusura dei due importanti terminali. Agli occhi delle milizie di Jidran, cui era stato affidato il controllo delle infrastrutture, il governo di Tripoli si era macchiato di gravi atti di corruzione nella gestione del petrolio. Accuse respinte dall'Esecutivo dell’allora premier Ali Zeidan che aveva contrattaccato: sono loro ad aver venduto il greggio in nero, arrecando un danno incalcolabile alle casse dello Stato.
Nell'arco di poche settimane la produzione petrolifera era crollata da 1,4 milioni di barili al giorno (mbg) a circa 150mila nei momenti più critici. La Libia, il paese con le prime riserve di greggio dell’Africa e le quarte di gas naturale, fu costretta in settembre a importare gasolio per far funzionare le centrali elettriche. Tra i molti bassi, e i pochi alti, la produzione petrolifera ha funzionato a singhiozzo per un anno, restando comunque su valori decisamente bassi, anche nei momenti migliori.
In verità il passaggio di consegne celebrato il 3 giugno segue un accordo tra le stesse parti avvenuto in aprile. In quel mese i ribelli di Jidran avevano consegnato subito due porti, ma si trattava di terminali piuttosto piccoli. Ras Lanuf ed Es Seder hanno ben altra capacità: circa 550mila barili di export al giorno. In questi giorni un nuovo accordo dovrebbe consentire il riavvio anche del porto di Brega, sempre in Cirenaica, con una capacità di 90mila barili al giorno.
L’immediata ripartenza dell’industria petrolifera, promessa il giorno stesso sull’onda dell’entusiasmo, non si è però ancora avverata. Non come sperava il premier.
È trascorso più di un mese e mezzo dall’annuncio e la produzione – secondo un comunicato rilasciato dalla compagnia petrolifera statale Noc, avrebbe toccato la scorsa settimana i 550mila barili al giorno per poi scendere nuovamente a 450mila a causa degli scontri nella capitale tra milizie rivali. Il giacimento di El-feel - noto anche come Elephant –, in cui lavorano Eni e Noc, ha dovuto ridurre l’estrazione a causa degli scontri nella capitale. Per rivedere un sostanziale incremento produttivo in Libia occorrerà attendere almeno la fine di agosto. I più pessimisti, che in questo paese hanno avuto spesso ragione, parlano già di ottobre.
Sicurezza permettendo. Perché, così come hanno volontariamente riconsegnato i porti, le milizie della Cirenaica hanno la forza per riappropriarsene qualora le loro richieste non venissero esaudite. Insomma la cautela è d’obbligo. Anche perché gli scontri in corso all’aeroporto di Tripoli tra milizie rivali hanno spinto altre major straniere a far evacuare lo staff straniero. Dopo la francese Total e altre compagnie, in questi giorni l’italiana Eni e la spagnola Repsol, rispettivamente i primi due investitori stranieri hanno spostato i loro espatriati: l’Eni ha traferito i suoi tecnici sulla piattaforma offshore di Bouri, 120 chilometri dalle coste libiche, ha spiegato Husain Abu Siliana, il capo dell’operazioni del giacimento di Mellitah al quotidiano Libya Herald. La Repsol, come aveva fatto al Total, avrebbe invece fatto allontanare lo staff via terra in Tunisia.
L’appello lanciato le scorse settimane dal ministro libico degli esteri, Mohammed Abdelaziz, suona come l’ennesimo campanello d’allarme: «La mancanza di protezione dei nostri giacimenti e dei porti da cui esportiamo il nostro petrolio resta un problema molto serio», aveva precisato il ministro invocando l’aiuto della comunità internazionale. Da solo, l’ex regno di Muammar Gheddafi non è dunque in grado di disarmare le potenti milizie che da tre anni paralizzano il paese.
I tempi, inevitabilmente, saranno più lunghi del previsto. Ed è questo il problema maggiore. Il governo di Tripoli, l’attuale e il prossimo Esecutivo che uscirà dalle consultazioni seguite alle elezioni del 25 giugno, ha un bisogno disperato di liquidità.
L’emorragia causata dalle mancate entrate petrolifere è molto grave: 30 miliardi di dollari in un anno, denunciano, preoccupate fonti del Governo. Per quanto ridotto a 47 miliardi di dollari, il budget 2014 sarà difficilmente realizzabile. Tra le diverse risorse disponibili, 6,4 miliardi di dollari arriveranno dai surplus accumulati; 12,8 miliardi da un fondo apposito della Banca centrale, originariamente creato come cuscinetto per finanziare progetti per le generazioni future; 21 miliardi dalle entrate petrolifere stimate. Quest’ultimo capitolo – secondo la Commissione deputata a redigere il budget – sarebbe raggiungibile con una produzione petrolifera pari a 600mila barili al giorno per tutto il 2014.
I conti non quadrano. Difficile immaginare come si possa arrivare a 21 miliardi di dollari di entrate petrolifere quando nei primi tre mesi ne sono entrati solo 3,2 miliardi. E confidare in 600mila barili al giorno, quota mai toccata nel primo semestre dell’anno, significherebbe che d’ora in poi i pozzi libici dovrebbero essere quasi tutti operativi, così come i terminali per l’export.
Per far fronte all' "emergenza budget" i vari Governi hanno attinto fondi dalle riserve della Banca centrale. Dei 132,5 miliardi di dollari presenti un anno fa ne sono rimasti oggi meno di 110. Ma buona parte di questi fondi sono investiti in assets oltreoceano, non sono di immediata liquidità, e comunque non sono disponibili in tempi brevi. Ecco perché tornare ai livelli produttivi precedenti la rivolta – 1,6 milioni di barili al giorno – o a quelli del giugno 2013 - 1,4 m/bg – è fondamentale. La Libia è un paese petro-dipendente. Il 95% delle esportazioni arriva dall'energia. E sull'energia è costruita l'ossatura del budget governativo. Occorre far presto. In un paese che acquista tutto dall'estero – l'import risucchia 30 miliardi di dollari l'anno – abbattere i sussidi governativi (ogni mese 650 milioni di dollari sono allocati per il carburante) potrebbe provocare sommosse popolari. L’ultima cosa di cui ha bisogno la tormentata “nuova Libia”.
Roberto Bongiorni, Il Sole 24 Ore