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Commentary

Investimenti Cina-Ue: l'Europa sul giusto binario

Alessia Amighini
19 settembre 2017

L'adozione di un regolamento europeo [1] sugli investimenti esteri in entrata nell'UE, annunciata dal presidente Jean-Claude Juncker nel discorso annuale sullo Stato dell'Unione lo scorso 13 settembre, non soltanto segna un punto di svolta epocale nelle relazioni economiche tra l'Europa e i principali paesi investitori nel continente, soprattutto la Cina, ma è destinata a cambiare il ruolo dell'Unione nella nuova digital age della globalizzazione, di cui la Cina vuole essere protagonista. È l’ “Impero di Mezzo”, infatti, il principale partner che ha ispirato la Commissione - dopo anni di assenza di regolamentazione, nello stallo in cui versano da sempre le negoziazioni per un Trattato bilaterale degli investimenti iniziate nel 2012 - nell’ideazione e stesura di un framework per il monitoraggio degli investimenti esteri allo scopo di proteggere la sicurezza e l’ordine pubblico dell’Unione.

Le due economie più grandi del mondo sono da tempo legate tra di loro a doppio filo da ingenti investimenti diretti, nella forma di acquisizioni parziali o totali, fusioni o joint-venture, ma anche di alleanze produttive. Negli ultimi vent’anni del secolo scorso si trattava solo di capitali europei verso la Cina. Con la "politica della porta aperta" le imprese europee (ed estere in generale) hanno inizialmente beneficiato dei bassi costi dei fattori rispetto ai paesi di origine, e dagli anni Novanta hanno avuto acceso graduale al grande mercato cinese, in cambio di un parziale trasferimento di tecnologia e know-how. Oggi che i primi sono quasi completamente erosi dagli aumenti salariali cinesi, e che le imprese cinesi hanno rapidamente risalito la scala del progresso tecnologico, soprattutto attraverso il reverse engineering, un maggior accesso al mercato più grande e dinamico del mondo è l’obiettivo principale degli investimenti europei in Cina, che però chiede come contropartita un maggior trasferimento di conoscenza. Nessuna o poche condizioni sono state invece poste agli investitori cinesi nel vecchio continente, in forte aumento dalla metà degli anni Duemila (come effetto combinato delle politiche di espansione internazionale delle imprese e dell’ingente liquidità disponibile attraverso le banche di Stato). Il risultato è stato un crescente squilibrio nei flussi di investimenti diretti bilaterali: l’Europa è diventata la principale destinazione dei capitali cinesi nell’ultimo decennio, e secondo i dati di Merics [2], a fronte di 35 miliardi di euro investiti dai cinesi in Europa nel 2016, in aumento del 77% rispetto all’anno precedente, il valore degli investimenti europei in Cina è diminuito per il quarto anno consecutivo, e si attesta sugli 8 miliardi di euro.

Il 2017 segna però una svolta rispetto all'intesa implicita che ha caratterizzato i “Trenta gloriosi” anni di crescita economica cinese (1980-2010), in quanto per la prima volta ha visto cambiar di segno la direzione dei flussi bilaterali tra la Cina e il primo paese europeo per investimenti in Cina, la Germania. Mancanza di reciprocità nelle opportunità di investimento e nell’accesso al mercato in Cina sono i principali fattori all’origine di tale squilibrio, che non riguarda solo i flussi, ma anche gli obiettivi, dichiaratamente market-seeking quelli europei in Cina a fronte degli asset- e tecnology-seeking dei cinesi a caccia di tecnologia in Europa [3]. L’Italia, insieme a Germania e Regno Unito, è stato uno dei paesi preferiti dagli investitori cinesi, che hanno approfittato delle crisi di liquidità di molte imprese nazionali per acquisirne la proprietà. Sebbene sia doveroso riconoscere l’effetto positivo di molte acquisizioni sulle prospettive di crescita delle imprese acquisite, è altrettanto evidente l’intento puramente predatorio di altre scalate, che l’assenza di una regolamentazione rende impossibile evitare. Benvenuto quindi lo screening europeo che andrà ad affiancarsi a quelli nazionali esistenti in solo circa  la metà degli stati membri, nei quali le posizioni seguite finora per far fronte all’ondata di investimenti da paesi terzi, soprattutto cinesi, sono state le più disparate, dall’apertura incondizionata e scriteriata della Grecia per evidenti motivi di crisi di liquidità, alla golden share francese, la più protezionistica di tutte, che ha avuto il vantaggio indiscusso di evitare di perdere i gioielli di famiglia, ma è certamente indifendibile sul piano dell’opportunità di impiego di risorse pubbliche. 

Oggi la Commissione ribadisce la vocazione libero-scambista dell’Unione e l’apertura agli investimenti esteri come principio fondamentale e fonte di crescita, ma non l’ingenuità incondizionata con la quale è stata perseguita finora. In particolare, la regolamentazione appena varata prevede il monitoraggio dei settori ritenuti strategici, soprattutto infrastrutture, tecnologia e input critici (dei quali include un elenco indicativo, che lascia molto spazio di manovra al regolatore, ma al contempo introduce una contraddizione, insita nella natura stessa, variabile e mutevole, dei settori strategici nello spazio e nel tempo). [4] Inoltre, il regolamento è rivolto soprattutto a due fattispecie di investimenti: le acquisizioni di tecnologie chiave da parte di imprese di proprietà pubblica per motivi strategici (nell’ipotesi non dimostrata che la cessione delle stesse sia potenzialmente più lesiva della sicurezza nazionale o dell’ordine pubblico nel caso in cui l’impresa acquirente estera sia di proprietà pubblica rispetto al caso di un’impresa sempre estera, ma privata) e le acquisizioni da parte di imprese di nazionalità di paesi che non garantiscano la reciprocità nell’apertura agli investimenti in casa propria.

Si tratta dei due temi più caldi nel dibattito attuale: il primo tema - la proprietà statale o degli aiuti di Stato alle imprese acquirenti – nel caso della Cina come paese investitore è a dir poco scivoloso. Come nel resto del mondo, anche in Cina il modo più comune e seguito per individuare la proprietà delle imprese è la registrazione legale delle imprese stesse. In Cina le imprese possono essere registrate come di proprietà pubblica, di proprietà collettiva, di proprietà privata, a responsabilità limitata, holding ed estere. Tuttavia, mentre sono classificate come pubbliche soltanto le imprese registrate come tali, molte imprese di fatto di proprietà pubblica (in quanto lo Stato o le province ne sono gli azionisti di maggioranza) sono in realtà registrate come imprese estere oppure come impresa a responsabilità limitata o per azioni. Dai dati del censimento delle imprese analizzati da Hsieh e Song (2015) [5], nel 1998 ‘solo’ il 15% delle imprese di proprietà pubblica erano registrate come private, ma nel 2007 la percentuale era salita a poco meno del 50%. Se il primo decennio di riforme ha realizzato una razionalizzazione delle imprese pubbliche, di certo lo stesso non è avvenuto nelle regole sulla trasparenza della struttura proprietaria delle stesse. Di conseguenza, il monitoraggio europeo dovrebbe non solo giungere a un’interpretazione realistica dell’assetto proprietario in terra cinese al di là delle classificazioni formali (!), ma anche dimostrare indiscutibilmente alla controparte i termini delle proprie argomentazioni (!!). Non da ultimo, anche in caso di acquisizione di asset strategici da parte di imprese cinesi ritenute indipendenti dal governo al momento dell’acquisizione, è evidente il rischio di ingerenza dello Stato a posteriori, così come avvenuto l’estate scorsa in merito agli investimenti ritenuti ‘irrazionali’ da parte di alcune multinazionali cinesi in settori dello sport ed entertainment.

Anche il secondo tema - la reciprocità - è rischioso. Sebbene la mancanza di reciprocità negli investimenti bilaterali sia all'origine di molte frizioni, perseguire la piena reciprocità lascia intendere una parità di trattamento reciproco tra paesi con lo stesso status e contraddice la posizione europea secondo la quale la Cina non sarebbe un’economia di mercato, status che le garantisce un trattamento favorevole. Pretendere reciprocità solleva cioè l’altro tema caldo e irrisolto tra Europa e Cina, il Market Economy Status. Per aggirare questo aspetto, sono state avanzate proposte alternative singolari, tra cui quella di accettare acquisizioni estere cinesi in Europa solo per quote di minoranza, ed estenderle eventualmente a quote di maggioranza soltanto in cambio di un effettivo aumento dell’accesso al mercato interno cinese. Questa proposta ha due grandi limiti: innanzitutto, sdogana e istituzionalizza il ‘ricatto’ cinese nei confronti delle imprese estere con quote rilevanti (o potenziali) di fatturato provenienti dal mercato cinese, ritenute ‘colpevoli’ di aver tratto o voler trarre profitto dai consumatori cinesi più abbienti, sempre più propensi a orientarsi verso i beni esteri che soddisfano bisogno e desiderio di qualità e di status che i beni domestici ancora non soddisfano. Soprattutto, questa proposta confonde la natura certa e duratura di un’acquisizione maggioritaria negli assetti proprietari con la natura incerta e variabile di una quota di mercato che dipende dai gusti e dalle preferenze dei consumatori cinesi, senza contare le maggiori difficoltà di misurazione. In altre parole, propone di offrire un beneficio certo a lunga contro quello che potrebbe rivelarsi un semplice contentino a breve. Ben venga allora uno screening caso per caso con criteri flessibili, con il quale forse oggi le acquisizioni cinesi in Europa non sarebbero tali e tante, ma sarebbe anche più evidente a tutti che il bisogno cinese di accesso ai mercati e alla tecnologia europei non è meno impellente dell’interesse europeo di servire il mercato cinese.

 

Alessia Amighini, Università del Piemonte Orientale e Co-Head del Programma Asia, ISPI


[1] Il testo completo qui https://ec.europa.eu/transparency/regdoc/rep/1/2017/EN/COM-2017-487-F1-EN-MAIN-PART-1.PDF ).
[2] https://www.merics.org/fileadmin/user_upload/downloads/MPOC/COFDI_2017/MPOC_03_Update_COFDI_Web.pdf
[3] Amighini, A., Rabellotti R., Sanfilippo M. (2013), Do Chinese state-owned and private enterprises differ in their internationalisation strategies?, China Economic Review, Vol. 27, pp. 312-325. Amighini, A., Rabellotti, R., Sanfilippo, [4] M. (2013), China's Outward FDI: An Industry-level Analysis of Host-Country Determinants, Frontiers of Economics in China, Vol. 8 (3), pp. 309-336.
[5] I settori citati dal Regolamento sono l’energia, i trasporti, le comunicazioni, lo stoccaggio dati, le infrastrutture spaziali e finanziarie, e delle non meglio definite ‘strutture sensibili’, le tecnologie cruciali, tra cui l’intelligenza artificiale, la robotica, i semiconduttori, le tecnologie con applicazioni sia civili sia militari, la cybersecurity, la tecnologia spaziale e nucleare, l’approvvigionamento di input ‘critici’, l’accesso a informazioni sensibili o la capacità di controllare tale informazioni.
[6] Hsieh, C.-T. e Song, M. (2015), Grasp the large, let go of the small: The transformation of the State sector in China, NBER wp No. 21006
 

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Cina Europa economia commercio Crescita investimenti
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Autori

Alessia Amighini
Università del Piemonte Orientale e ISPI Associate Research Fellow

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