L’insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca ha suscitato diverse aspettative circa la possibilità di un nuovo accordo con l’Iran, dopo che, con Trump, gli USA si sono ritirati dal JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action) e hanno avviato la campagna della “massima pressione” volta a piegare Teheran a suon di sanzioni. Se il neo-presidente USA ha espresso l’intenzione di fare pieno ritorno al JCPOA, nella realtà dei fatti ciò potrebbe non essere così semplice. Prova ne è l’impasse di queste settimane, in cui Washington e Teheran rivolgono l’un l’altra appelli reciproci a fare il primo passo, mentre il tempo passa e la finestra diplomatica rischia di chiudersi.
L’apertura dell’Iran
Da parte iraniana, vi è la disponibilità a tornare alla piena implementazione del JCPOA, interrompendo dunque le attività legate al programma nucleare che sono riprese in questi mesi, ma la pre-condizione è la rimozione delle sanzioni che erano in vigore prima del 2015, reintrodotte poi da Trump, così come la rimozione delle ulteriori sanzioni imposte dall’ex presidente USA durante il suo mandato. La logica seguita da Teheran nell’argomentare la propria posizione è dunque che, essendo stati gli Stati Uniti i primi a violare i termini dell’accordo, e avendo Teheran in un primo momento continuato ad adempiere nonostante la reimposizione delle sanzioni, sono proprio gli USA a dover fare il primo passo, correggendo la propria inadempienza e restituendo dunque integrità all’accordo.
La risposta americana
Gli USA, dal canto loro, hanno confermato la volontà di tornare al JCPOA, dunque rimuovere le sanzioni, aggiungendo però che questo avverrà dopo che Teheran avrà fatto il primo passo tornando ad adempiere pienamente ai termini dell’accordo. Il neo-segretario di Stato Antony Blinken ha anche confermato l’intenzione di lavorare insieme agli alleati per negoziare un accordo di maggiore durata e portata, che potrebbe dunque comprendere anche il programma missilistico e la politica iraniana di sostegno ai propri alleati nella regione (Hezbollah in Libano, le milizie filo-Assad in Siria, gli Houthi in Yemen, le Forze di mobilitazione popolare in Iraq). Obiettivo, questo, che difficilmente incontrerà la disponibilità di Teheran, per la quale la priorità è rappresentata dalla rimozione delle sanzioni.
Un’economia in difficoltà
L’anno che si è appena concluso, e che ha messo in ginocchio le maggiori economie globali, non ha risparmiato Teheran. Gli effetti economici della pandemia si sono infatti sommati al crollo dei prezzi del petrolio e alle sanzioni, dando origine a un “triplo shock” che nel corso del 2020 ha contribuito a peggiorare l’outlook economico del Paese. Il 2020 ha infatti segnato la terza recessione consecutiva, con una contrazione del Pil pari al 6,8%. A trascinare il dato verso il basso sono stati gli effetti delle sanzioni USA, in particolare le misure restrittive alle importazioni di petrolio da Teheran, e il crollo del mercato petrolifero registrato nella prima metà dell’anno in seguito al diffondersi della pandemia da coronavirus. Il crollo del Pil derivante dal petrolio è stato infatti del 38,7%. La quantità di petrolio esportato da Teheran nel 2020, pur nell’assenza di dati ufficiali, viene stimata tra i 500.000 e i 700.000 barili al giorno, per un ricavo annuo totale di meno di 5$ miliardi. Se si confronta questa cifra con il dato del 2017, quando in assenza di sanzioni la rendita petrolifera annua era stata di 53$ miliardi, è possibile comprendere l’entità della crisi.
Ma la pandemia ha colpito duramente anche il settore non petrolifero (agricoltura, manifatturiero, servizi), ovvero il settore che ha trainato l’economia iraniana da quando le sanzioni USA hanno imposto lo stop al settore dell’energia. Secondo la Banca Mondiale, a giugno 2020 1,5 milioni di persone avevano perso il loro lavoro.
La capacità di garantire trasferimenti di denaro alle fasce più svantaggiate della popolazione emerge dunque come cruciale per la tenuta socio-economica, e la conseguente stabilità politica, del Paese. Tra l’aprile e il novembre 2020, l’aumento dell’inflazione e l’incertezza geopolitica legata al confronto con gli Stati Uniti hanno causato una svalutazione del rial rispetto al dollaro pari al 43%. L’isolamento finanziario di Teheran imposto da Washington è inoltre causa di difficoltà di accesso ai ricavi derivanti dalle esportazioni, che fa presagire una imminente crisi di liquidità. Ma la svalutazione della moneta ha colpito anche e soprattutto i consumatori, dal momento che i prezzi delle merci tanto importate quanto prodotte internamente hanno subito un consistente rialzo. L’indice dei prezzi al consumo nel periodo aprile-novembre 2020 è aumentato del 30,6% su base annua, raggiungendo il +46,4% nel mese di novembre (rispetto al novembre 2019). Ad aumentare in misura maggiore sono stati i prezzi delle materie prime alimentari e degli immobili, con evidenti implicazioni sulle componenti della popolazione a più basso reddito.
A fronte di un consistente calo delle entrate, il Governo iraniano ha provveduto al finanziamento della spesa pubblica tramite emissione di debito, vendita di asset sul mercato azionario e attingendo al fondo sovrano riservato alle spese emergenziali. Il rapporto tra deficit e Pil è dunque raddoppiato nel periodo 2019-2020 fino a raggiungere il 3,7%.
Un quadro complessivo incerto
Esistono evidenti elementi di continuità tra il contesto economico e politico attuale e quello che nel 2005 portò alla vittoria elettorale di Mahmoud Ahmadinejad. La crisi economica e il deterioramento della già complessa relazione con gli Stati Uniti rischiano pertanto di avere una forte influenza sul risultato delle elezioni presidenziali che si terranno il prossimo 18 giugno. Sebbene per il momento non esistano certezze riguardo ai nomi dei candidati o agli schieramenti politici che li sosterranno, lo scenario che si delinea all’orizzonte è quello della vittoria di un ultraconservatore sostenuto dagli ambienti militari, come lo fu a suo tempo Ahmadinejad. La variabile che può potenzialmente modificare questo scenario è quella di una ripresa del dialogo con gli USA e di un conseguente allentamento delle sanzioni. Ma la diplomazia, si sa, richiede tempi lunghi, mentre ciò che si prospetta in questo caso è una corsa contro il tempo.