No. Tra le incognite che ci può riservare il 2019, non è da prevedere una crisi della Repubblica Islamica dovuta alla politica di “maximum pressure” messa in atto dall’Amministrazione Trump.
Il ritorno delle sanzioni americane impatta sulla vita degli iraniani e soprattutto sulla classe media già impoverita dalle precedenti sanzioni in vigore fino all’attuazione dell’accordo sul programma nucleare (JCPoA – Joint Comprehensive Plan of Action). Gli iraniani soffriranno per la contrazione dell’economia, la carenza di medicine e prodotti alimentari, la volatilità dei prezzi e del tasso di cambio, eccetera. Tuttavia la storia della Repubblica Islamica testimonia di una particolare resilienza di fronte alle difficoltà, tra cui gli otto anni di guerra con l’Iraq, le ricorrenti sanzioni, le difficoltà socio-economiche legate a fattori strutturali che pesano sullo sviluppo del paese, la natura e complessità del sistema politico-istituzionale e le sue tensioni interne.
Il malcontento di molti iraniani nei confronti della situazione attuale è reale e giustificato, ma di fronte alla pressione esterna e ai tentativi di ingerenza essi tendono a compattarsi, anche sostenendo un sistema che non tutti condividono. Inoltre stavolta le sanzioni non sono internazionali, ma unilaterali, quindi potenzialmente meno efficaci, e il paese non è isolato, in quanto beneficia del sostegno di Europa, Russia e Cina al JCPoA, oltre che di una rete di partners regionali (Turchia, Qatar, Oman) e internazionali, mentre gli USA non sono riusciti a creare una coalizione a sostegno della loro violazione del JCPoA e della risoluzione 2231 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
È indubbio che la politica di Trump alimenti le forze più radicali all’interno del sistema, quelle contrarie al JCPoA e al dialogo con gli Stati Uniti, oltre che le tensioni fra le diverse fazioni, ma al momento c’è ancora un ampio elettorato che sostiene il Presidente Rohani e rifugge da un approccio radicale e ideologico, mentre i vertici del regime ancora ritengono che la scelta moderata compiuta nel 2013 con l’elezione di Rohani sia la migliore per assicurare l’eredità della rivoluzione, la relativa stabilità del sistema, evitare violenze interne e interferenze straniere.
Teheran è consapevole del “soft paradigm shift” che si sta manifestando in diversi paesi europei nei confronti degli USA e del legame transatlantico. Gli conviene dare tempo all’Europa, colpita dalle sanzioni secondarie americane, di recuperare gradulamente una sua maggiore autonomia decisionale. Nel frattempo ha interesse a mantenere quel senso di superiorità morale che gli viene dal pieno rispetto del JCPoA, come certificato periodicamente dall’AIEA. Occorre però che da Bruxelles giungano segnali concreti che consolidino tale orientamento. In questo senso vanno sia la politica di dialogo e coinvolgimento sul piano bilaterale e regionale mantenuta dalla UE, sia le iniziative destinate a ribadire la volontà, se non anche la capacità, di riconoscere all’Iran i benefici economici attesi a fronte delle pesanti limitazioni imposte al suo programma nucleare.
Sul piano regionale, mentre continua a beneficiare indirettamente delle iniziative avventate di Riyad, l’Iran sta dando alcuni segnali di avere compreso l’opportunità di un approccio più costruttivo (da qui il sostegno alle Nazioni Unite in Yemen) o meno distruttivo (in Siria alcuni ripiegamenti tattici favoriti da Mosca hanno consentito di allontanare la prospettiva di uno scontro con Israele). All’Europa spetta il compito di mantenere aperto il dialogo con Teheran sulle crisi regionali e, se possibile, di ampliarlo al tema del programma missilistico, che preoccupa entrambe le sponde dell’Atlantico.
L’Iran è certamente sotto pressione, ma non sul punto di crollare. Mentre cercherà di gestire al meglio le sanzioni americane (vuoi aggirandole, vuoi grazie alle grandi economie asiatiche cui vende gran parte del petrolio), il suo sistema politico-istituzionale dovrebbe mostrare continuità più che svolte drammatiche.
Maggiore incertezza regna sul fronte americano, dove non è chiaro se l’obiettivo perseguito sia quello di nuovi negoziati con Teheran (cui mirano i 12 punti illustrati dal Segretario di Stato Pompeo nel maggio scorso) o di un “regime collapse” (se si interpretano correttamente alcune affermazioni del Consigliere per la Sicurezza Nazionale Bolton). Sono due esiti antitetici e comunque entrambi poco realistici nei due anni che ci separano dalla fine del (primo) mandato di Trump. Col passare dei mesi, un sostanziale status quo in Iran, che in febbraio celebrerà il 40° anniversario della Repubblica Islamica, insieme al mantenimento di una quota del suo export petrolifero (stimata a circa 1 milione b/g) avrebbero un impatto sulla credibilità dell’Amministrazione anche in vista delle elezioni presidenziali del 2020. Quali scenari si potrebbero aprire? Trump ha fatto dell’imprevedibilità una delle cifre della sua politica estera e non è estraneo a repentini cambi di rotta, che in futuro potrebbero riguardare anche l’Iran.