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L'annuncio di Teheran
Iran e nucleare: ultimatum all’Unione europea
Annalisa Perteghella
08 maggio 2019

L’Iran ha annunciato di essere pronto a riprendere parte del proprio programma nucleare in risposta alle sanzioni imposte dagli Stati Uniti di Donald Trump. La decisione arriva nel giorno dell’anniversario del ritiro statunitense dall’accordo, a pochi giorni dall’annuncio di Washington della volontà di non rinnovare le esenzioni sull’acquisto di petrolio iraniano e di rinnovare per soli 90 giorni, anziché 180, le esenzioni che permettono a Cina, Russia e alcuni paesi europei di collaborare con Teheran nella realizzazione del programma nucleare civile.

Si tratterebbe della prima parziale violazione dell’accordo da parte di Teheran, in risposta a quella che l’Iran percepisce come una violazione dell’accordo da parte degli Stati Uniti e una mancata implementazione da parte degli altri stati, europei in primis. Qual è il significato del gesto? Quali scenari si aprono?

 

Come interpretare l’annuncio iraniano?

La decisione iraniana, secondo il Consiglio supremo di sicurezza nazionale, troverebbe giustificazione negli articoli 26 e 36 del JCPOA. Il primo impegnava gli Stati Uniti a non reintrodurre le sanzioni che erano state sospese, né a introdurne di nuove. Nel caso in cui questo fosse accaduto - come di fatto è successo - l’Iran avrebbe considerato tale atto come la motivazione per cessare in tutto o in parte il proprio adempimento dell’accordo. Anche l’art.36 apre la strada a uno stop all’implementazione dell’accordo, in tutto o in parte, nel caso di una disputa interna alle parti non risolta adeguatamente dalla Commissione congiunta del JCPOA.

La decisione prospetta dunque una riduzione della compliance iraniana con il JCPOA, ma non ancora un ritiro definitivo dall’accordo. In particolare, Teheran non rispetterà più i limiti quantitativi di stoccaggio di uranio arricchito e acqua pesante stabiliti dall’accordo. Si introduce poi un limite temporale: se entro 60 giorni gli Stati che rimangono parte del JCPOA (dunque Francia, Germania, Regno Unito, Russia e Cina) non troveranno il modo per rispettare gli impegni presi con l’accordo, in particolare l’acquisto di petrolio iraniano e la garanzia dell’accesso al sistema bancario internazionale, l’Iran verrà meno ai propri impegni relativi al livello di arricchimento dell’uranio e alla riconversione del reattore ad acqua pesante dell’impianto di Arak.

La decisione iraniana rappresenta dunque più un ultimatum all’Unione europea e una risposta alla politica statunitense di “massima pressione”, che non una manifestazione della indisponibilità a continuare ad adempiere all’accordo. Con questo gesto, Teheran intende lanciare un segnale agli Usa e alla comunità internazionale: la via diplomatica è ancora aperta, ma se non si troverà il modo per far sì che l’Iran possa continuare a ricevere la contropartita stabilita dall’accordo in cambio dello stop al programma nucleare (ovvero la sospensione delle sanzioni), al paese non resta che ritirare la propria adesione all’accordo stesso e riprendere in toto le attività di sviluppo del proprio programma nucleare.

La risposta europea per il momento si sostanzia nella forma di una dichiarazione congiunta tra l’Alto rappresentante Federica Mogherini e i ministri degli Esteri di Francia, Germania e Regno Unito, nella quale si esprime “preoccupazione per la decisione iraniana” e si respinge “qualsiasi ultimatum”. Si reitera altresì la condanna della reintroduzione delle sanzioni da parte degli Stati Uniti e si rinnova l’impegno a preservare il JCPOA attraverso la ricerca di modalità per garantire continuità alle “attività commerciali legittime” con l’Iran. Una risposta, dunque, che può essere interpretata come un modo per prendere tempo, da una parte respingendo l’ultimatum iraniano e dall’altra invitando “i paesi non parte del JCPOA” (ovvero gli Usa) a non interferire con la volontà dei rimanenti paesi di dare corretta implementazione all’accordo. 

 

 

 

Quali gli effetti delle sanzioni USA?

Dallo scorso maggio a oggi gli Stati Uniti hanno imposto diversi round di sanzioni contro Teheran. Si è trattato in parte della reintroduzione delle sanzioni che erano state sospese con l’accordo e in parte dell’introduzione di nuove sanzioni, come quelle che hanno fatto seguito alla designazione come entità terroristica del Corpo dei guardiani della rivoluzione iraniana (pasdaran), lo scorso aprile. Soprattutto, si tratta di sanzioni secondarie, dalla portata extra-territoriale: gli Stati Uniti non si limitano a imporre ai propri cittadini e alle proprie aziende di non fare affari con Teheran, ma colpiscono tutti i paesi - indipendentemente dalla volontà di questi ultimi - che intraprendono rapporti economici con Teheran in diversi settori, oltre a rendere molto complicato l’accesso iraniano al sistema internazionale dei pagamenti.

Ciò ha portato a una sensibile diminuzione sia delle esportazioni che delle importazioni verso/da il paese. Le prime sono diminuite tanto nei settori soggetti a sanzioni quanto in quelli formalmente esenti, che sono stati comunque penalizzati dall’accresciuta difficoltà di ricevere pagamenti dal paese. Le seconde, perlopiù petrolio, sono state prima sensibilmente ridotte - a partire dal novembre 2018 - e ora formalmente bloccate. Ciò ha avuto degli effetti sull’interscambio tra Iran e Unione europea: secondo i dati Eurostat, nei primi due mesi del 2019 le importazioni dell’Ue dall’Iran sono diminuite dell’87% rispetto allo stesso periodo del 2018 (dunque prima della reintroduzione delle sanzioni Usa); le esportazioni europee verso Teheran sono invece diminuite del 60%.

Ma gli effetti più penalizzanti si registrano sull’economia iraniana. Le esportazioni di petrolio rappresentano circa il 70% delle esportazioni totali del paese; nel 2017 - in assenza di sanzioni, con un prezzo medio del barile di 50$ - i proventi annuali della vendita del petrolio sono stati di circa 40 miliardi di dollari. Dal novembre 2018, quando le sanzioni Usa hanno rimosso circa 1,5 milioni di barili al giorno di greggio iraniano dal mercato, l’Iran avrebbe perso circa 10 miliardi di dollari di rendite petrolifere. Ora che, da questo maggio, gli Usa puntano a rimuovere anche i rimanenti 1-1,2 milioni di barili di greggio iraniano al giorno, il danno economico per Teheran sotto forma di mancata rendita si prospetta ancora maggiore. Tutto ciò in un contesto di crisi economica incipiente, derivante dalla riduzione delle opportunità di business e dal deterioramento del clima di fiducia nei confronti del paese dovuto al ritorno delle sanzioni. L’economia iraniana è entrata in recessione nel 2018, quando la crescita del pil è stata del -4%.

A ottobre dello scorso anno, il Fondo Monetario Internazionale prevedeva per il 2019 una contrazione del 3,6%. A metà aprile 2019, le proiezioni del FMI sono state riviste ulteriormente al ribasso arrivando addirittura a -6%: i minimi dal 2012, quando il paese aveva fatto segnare una contrazione del 7,7% a causa proprio dell’embargo petrolifero, allora concordato dall’intera comunità internazionale. A completare il quadro è la vertiginosa svalutazione della moneta, -60% nel 2018, e l’altrettanto vertiginoso aumento dell’inflazione: 51,4% nell’aprile di quest’anno.

Nel giorno dell’anniversario del ritiro dal JCPOA, gli Usa hanno poi annunciato un nuovo round di sanzioni, questa volta sul settore metallurgico iraniano. Trump ha dichiarato che l’obiettivo di questo ulteriore round sanzionatorio è quello di ridurre le entrate economiche del paese. Occorre però notare che il settore è cruciale per l’economia iraniana non tanto per il suo ruolo nelle esportazioni del paese (solo 1/3 dei prodotti metallurgici iraniani viene esportato) quanto per il numero di persone a cui dà lavoro, direttamente o tramite industrie collegate, come quella automobilistica. Il risultato finale di queste sanzioni sembra dunque essere con ogni probabilità quello di un ulteriore aumento della disoccupazione, e il connesso aumento potenziale della tensione sociale e della pressione dal basso sul governo. 

 

C’è un ruolo per l’Unione europea?

Fin dall’annuncio - lo scorso 8 maggio - del ritiro statunitense dal JCPOA, l’Unione europea ha più volte ribadito la propria volontà di preservare l’accordo e di mantenere aperto il dialogo con Teheran. All’atto pratico, però è stato difficile tutelare le relazioni economiche tra l’Iran e i paesi europei a causa della sopracitata extraterritorialità delle sanzioni statunitensi. Bruxelles ha cercato di dotarsi di strumenti - come il Regolamento di blocco - per tutelare la sovranità economica europea dalle imposizioni del Tesoro statunitense. Tuttavia, l’Ue non è dotata del potere coercitivo per imporre a un’azienda europea, esposta al rischio di multe e esclusione dal mercato statunitense, di ignorare le richieste di Washington, né è dotata di quell’autonomia in campo finanziario che la renderebbe immune dalle minacce provenienti dall’alleato transatlantico. Nei mesi scorsi ha visto la luce INSTEX, lo Special Purpose Vehicle creato da Francia, Germania e Regno Unito e aperto alla partecipazione di altri paesi europei così come non europei, per permettere di mantenere aperto il canale dei pagamenti da e verso l’Iran, in alternativa al sistema finanziario internazionale SWIFT, precluso a diverse banche iraniane. Per il momento, INSTEX - che diventerà operativo nei prossimi mesi - sembra essere destinato esclusivamente alla gestione dei flussi finanziari derivanti dalla vendita dei beni umanitari (non colpiti dalle sanzioni Usa). In un secondo momento lo strumento potrebbe essere ampliato ad altri campi, sebbene l’ipotesi che possa essere utilizzato anche per le transazioni relative alla vendita di petrolio - vera fonte di introiti per il paese - appare per ora alquanto remota. Washington sembra infatti pronta a sanzionare gli alleati nel caso in cui questo dovesse avvenire e, nonostante INSTEX sia stato registrato presso la sede del ministero delle Finanze francese, non sembra esservi né a livello europeo né a livello dei singoli stati membri la volontà politica di sfidare in maniera così aperta gli Stati Uniti, con i quali è in corso una partita più ampia a livello commerciale. La strategia europea pertanto sembra essere quella di gettare acqua sul fuoco delle azioni statunitensi, ribadendo in numerose dichiarazioni di essere in disaccordo con quanto deciso a Washington e di essere determinata a tutelare e preservare l’accordo. Con la decisione di riprendere parte del proprio programma nucleare, dunque, Teheran lancia un messaggio anche a Bruxelles: le dichiarazioni e le prese di posizione devono essere sostanziate da gesti concreti, pena l’abbandono da parte iraniana dell’accordo e il successivo scoppio di una crisi che mette a repentaglio la sicurezza degli stessi paesi europei.

 

Prossima scadenza: le esenzioni sulla cooperazione nucleare civile

Oltre alla scadenza di 60 giorni imposta oggi dall’Iran ai paesi che rimangono parte del JCPOA per trovare il modo di dare corretta implementazione all’accordo, c’è un’altra scadenza a cui guardare. Passata più in sordina rispetto alla scelta di sanzionare il Corpo dei guardiani della rivoluzione, la decisione statunitense - lo scorso 4 maggio - di rinnovare per soli 90 giorni (quindi fino a inizio agosto) anziché 180 le esenzioni sulla cooperazione nucleare civile con Teheran potrebbe essere il colpo di grazia all’accordo sul nucleare. Il JCPOA prevede infatti che l’Iran possa sviluppare, con la collaborazione di partner internazionali, un programma nucleare a scopi civili. Le esenzioni, in particolare, riguardano la cooperazione internazionale per la riconversione dell’impianto nucleare di Arak, per la riconversione dell’impianto sotterraneo di Fordow in un centro di ricerca, e la gestione del reattore dell’impianto di Bushehr, allo scopo di produrre elettricità. Una volta venute meno le esenzioni, i paesi in questione - Russia, Cina, ma anche europei come il Regno Unito - saranno posti di fronte a una scelta: continuare a cooperare con Teheran, in ottemperanza al JCPOA, incorrendo però nelle sanzioni statunitensi, oppure cessare la cooperazione nucleare civile con Teheran, violando però in questo modo essi stessi gli impegni presi con l’accordo. Washington, in conclusione, spingerebbe le rimanenti parti dell’accordo a violarlo, provocando in questo modo il definitivo fallimento dell’intesa. Inoltre, venuta meno la cooperazione internazionale per la riconversione degli impianti, essi potrebbero tornare a essere utilizzati per la realizzazione di un programma nucleare a fini militari. Rinnovando le esenzioni sulla cooperazione nucleare civile per 90 giorni anziché 180 Washington intende aumentare ulteriormente la pressione su Teheran per costringerla a tornare al tavolo delle trattative e negoziare un nuovo accordo, più rappresentativo degli interessi statunitensi. Come per le precedenti misure, però, l’efficacia della strategia statunitense rimane da dimostrare.

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Ambasciatore, Presidente del centro italo-tedesco per il dialogo europeo Villa Vigoni

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AUTORI

Annalisa Perteghella
ISPI Research Fellow - Iran Desk

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