Fin dalla sua traumatica fondazione nel 1979, la Repubblica islamica dell’Iran ha rappresentato – o perlomeno è stata percepita – come uno dei principali fattori d’insicurezza regionale da parte di una pluralità di attori diversi, dagli Stati Uniti, a Israele, ai paesi arabi sunniti. Il timore e l’ostilità verso il governo post rivoluzionario di Teheran hanno, in questi decenni, catalizzato improbabili alleanze o sinergie politiche, economiche e persino militari da parte di stati pur molto divisi fra loro.
E nonostante guerre, embarghi, tentativi d’isolamento, pressioni, risoluzioni Onu, minacce di attacchi militari l’Iran è divenuto in quest’ultimo decennio un attore ancora più forte verso l’esterno e più radicale al proprio interno. Molti analisti sottolineano come la crescita del ruolo geopolitico del paese sia derivata più dall’insipienza dei suoi nemici e dalla disastrosa politica mediorientale delle Amministrazioni Bush, piuttosto che dalle capacità dell’élite di potere repubblicana. Un’osservazione ingenerosa, sia pur fondata su solidi argomenti. Va dato atto a Teheran di aver sfruttato con abilità il proprio soft power e con spregiudicato cinismo le tante crisi presenti in Medio Oriente, sviluppando nel contempo importanti relazioni politiche ed economiche con le nuove po-tenze in ascesa a livello mondiale, Cina fra tutte.
Architrave di questa ascesa è stato indubbiamente il programma di arricchimento nucleare iraniano; nonostante tutti i tentativi di trovare un compromesso che rassicurasse la comunità internazionale senza bloccare le aspirazioni tecnologiche di Teheran – e nonostante pressioni e minacce – l’Iran è ormai vicino ad acquisire una capacità nucleare militare latente. Una latenza che inquieta i paesi arabi molto più del nucleare israeliano, e che può spingere lo stato ebraico ad azzardi militari dalle conseguenze potenzialmente catastrofiche per tutta la regione. Ad aggravare questa percezione di rischio contribuiscono poi i legami che l’Iran ha con movimenti islamisti radicali e violentemente anti-israeliani (da Hezbollah a Hamas), la popolarità del presidente ultra-radicale Mahmoud Ahmadinejad presso le opinioni pubbliche islamiche (non necessariamente sciite), la crescita d’influenza in Iraq, Afghanistan e presso le minoranze sciite politicizzate del Golfo.
Ma dietro questa immagine di forza e peso geopolitico vi è il rovescio della medaglia: l’Iran è un paese che – dopo le illusioni di un riformismo interno (1997-2005) che ha inutilmente cercato di democratizzare il paese a piccoli passi – attraversa una crisi di legittimità e di consenso come mai prima. L’ascesa degli ultra-radicali e dei pasdaran ha scardinato i precedenti assetti di potere, in-nescando una crescente repressione di ogni dissenso interno e una tendenza verso un neo-totalitarismo para-militare che rischia di travolgere la teocrazia sciita.
Dietro l’eccesso di confidenza degli ultra-radicali vi è un paese colpito duramente dalle sanzioni economiche, con il ceto commerciale dei baazari – una colonna tradizionale della Repubblica islamica – in progressivo distacco dal regime al potere. Il graduale ritiro militare statunitense dall’Iraq e, in futuro, di quello Nato dall’Afghanistan paradossalmente diminuiscono la capacità di Teheran di colpire in modo asimmetrico l’Occidente, mentre rafforzano l’ostilità dei paesi arabi sunniti. Anche la crescita di rapporti con i governi regionali (dalla Turchia all’Iraq, dal Pakistan all’Afghanistan) in qualche modo condiziona il governo iraniano a una politica meno avventurista e radicale.
Piaccia o meno, l’Iran è oggettivamente una potenza geopolitica regionale. L’ascesa al suo interno di un nuovo gruppo di potere ultra-radicale è stata il frutto anche dei nostri errori e della nostra incapacità di sostenere le forze riformiste e moderate. Una politica internazionale meno controproducente e meno velleitaria è il primo passo per attenuare la percezione della minaccia iraniana nel 2011.