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Commentary

Iran: la battaglia solitaria di Obama

Davide Borsani
20 novembre 2014

L’esito dell’ennesimo round di negoziati iniziato a Vienna lo scorso 18 novembre tra il P5+1 e Teheran aprirà una nuova fase per il dossier nucleare iraniano. Negli Stati Uniti – il paese con maggior peso diplomatico coinvolto nelle trattative – la questione è sentita sia a destra che a sinistra dello spectrum politico nazionale. Memore delle parole del segretario di stato, John Kerry, per cui «no deal is better than a bad deal»(1), il presidente, Barack Obama, si è recentemente mostrato prudente sulle possibilità di siglare un compromesso. Non solo perché un «big gap»(2), come ha affermato il 9 novembre, ancora separa le parti in gioco, ma anche per via dell’inquietudine e dell’ostruzionismo dei recenti vincitori delle elezioni di midterm, i Repubblicani, che da gennaio avranno il completo controllo del Congresso.

Il ricorrente timore palesato dal Grand Old Party (GOP) è che l’amministrazione Obama sia oltremodo disposta a fidarsi delle dubbie promesse iraniane rischiando così di firmare un bad deal per gli interessi strategici di Washington. Nel medio/lungo periodo, ciò – è la tesi sostenuta – implicherebbe un prezzo troppo alto da pagare a fronte della principale posta in palio dell’accordo: la (già molto precaria) stabilità del Medio Oriente, a sua volta interconnessa con la sicurezza d'Israele. Le recenti notizie arrivate dall’Iran non hanno fatto altro che accrescere i sospetti dei Repubblicani. L’International Atomic Energy Agency (Iaea), agenzia delle Nazioni Unite, ha annunciato che Teheran ha violato alcune clausole dell’accordo provvisorio del 2013 e ha impedito le ispezioni dell’Iaea stessa in alcuni degli impianti nucleari. Proprio la capacità di arricchimento dell’uranio e la tipologia di ispezioni affidate all’agenzia Onu – l’organo internazionale che sarà deputato a monitorare l’implementazione dell’eventuale accordo definitivo – sono due tra i punti più complicati delle trattative a Vienna. In aggiunta a ciò, non è piaciuta alla maggioranza in pectore al Congresso la notizia della lettera segreta inviata da Obama alla Guida Suprema, Ali Khamenei, giunta mentre questi rivolgeva nuove accuse a Israele definendolo un regime «barbarico e infanticida»(3).

Anche tra le fila dei Democratici vari senatori e deputati hanno sollevato dubbi sulla possibilità di arrivare a un accordo soddisfacente per gli Usa. Che le perplessità siano bipartisan è dimostrato da un comunicato congiunto diffuso dal senatore repubblicano dell’Illinois, Mark Kirk, e da quello democratico del New Jersey, Robert Menendez, a capo del Committee on Foreign Relations del Senato, in cui si afferma «that a good deal will dismantle, not just stall, Iran’s illicit nuclear program and prevent Iran from ever becoming a threshold nuclear weapons state»(4). Ha aggiunto Kirk che «Like North Korea in the 1990s, Iran will use a weak deal as cover to get nuclear weapons»(5). Il repubblicano John Boehner, speaker della Camera dei Rappresentanti, ha alzato il volume del coro degli scettici dichiarando: «I don’t trust the Iranians, I don’t think we need to bring them into this. I would hope that the negotiations that are under way are serious negotiations, but I have my doubts»(6). Uno scetticismo, questo, non certo mitigato, secondo quanto riferito da fonti statunitensi, dall’inusuale segretezza con cui la Casa Bianca e il Dipartimento di stato hanno avvolto i preparativi per questo round di negoziati. Un’opacità probabilmente ritenuta preliminare e necessaria dall’amministrazione per colmare quel big gap che ancora separa l’Iran dal P5+1.

A Vienna, in caso di compromesso, non verrà siglato un trattato formale. Ciò, in altre parole, vorrebbe dire che il Senato americano non sarebbe chiamato a ratificarlo, come invece previsto dalla Costituzione. End of the story? Non proprio. Il Congresso cercherà comunque di esercitare un potere simile a quello di ratifica per vie traverse. Nel luglio scorso è stato introdotto al Senato e alla Camera dei Rappresentanti l’Iran Nuclear Negotiations Act, che vincolerebbe il presidente a presentare alla Camera Alta e a quella Bassa un qualsivoglia «agreement relating to Iran’s nuclear program entered into on or after the date of the enactment of this Act»(7). Il Congresso è inoltre l’unico ad avere il potere di cancellare le sanzioni economiche applicate a Teheran nel contesto della dual track policy di Obama, il quale, nella migliore delle ipotesi, potrebbe sospenderle, ma solo per un periodo limitato. Capitol Hill, insomma, reclama l’ultima parola, e il fatto che dal gennaio 2015 il Gop avrà nelle sue mani l’intero sistema bicamerale concorre a rendere più fosco l’orizzonte spingendo l’amministrazione ad accelerare l’apposizione della firma per non veder vanificato anche il supporto (potenzialmente) garantitogli ora dal Senato. Persino lo storytelling gioca un importante ruolo nella vicenda. Così come per l’Iran, ciò che serve agli Stati Uniti, sia a destra che a sinistra, è un accordo che possa permettere loro di uscire vincitori della disputa diplomatica, quanto meno agli occhi dell’opinione pubblica nazionale. Come ha dichiarato un anonimo diplomatico americano, ci sarà bisogno di «a narrative that Iran was forced to dismantle what it has»(8). Una narrativa che, evidentemente, passa anche da Israele e dalle sue influenti lobby a Washington.

Lindsey Graham, senatore repubblicano del South Carolina, ha osservato che in politica estera «The most consequential decision this president will make in his final two years is how to deal with the Iranian nuclear threat»(9). Dopo sei anni in cui Obama – con non poche contraddizioni – ha cercato di ricalibrare la politica statunitense verso il Medio Oriente, ora si trova di fronte alla fatidica ‘prova del nove’ dell’intera presidenza e, ancor più ovvio, del suo secondo mandato. Al momento l’unico (soprattutto simbolico) successo nell’area dell’attuale amministrazione è stata l’eliminazione di Osama Bin Laden. A Vienna il presidente sta pertanto impostando la sua più importante eredità nella regione. Un’eredità, questa, con cui il successore farà inevitabilmente i conti e che, punto non meno importante, concorrerà a delineare il giudizio degli americani sul posto di Obama nella Storia. Anche i Repubblicani lo sanno e, com’è naturale, in vista della corsa alla Casa Bianca tra due anni e nel contesto dello scontro totale che si profila all’orizzonte tra legislativo ed esecutivo, il dossier nucleare iraniano avrà senz’altro ancora molto da dirci.

1. "No deal better than a bad deal, Kerry says after failure of talks with Iran", NBC News, 10 November 2013

2. "Obama doubts Iran nuclear deal as Oman talks go into Monday", The Guardian, 9 November 2014

3. "Iran, Khamenei scatena l'odio anti Israele su Twitter", Lettera43, 16 November 2014

4. Menendez - Kirk Statement on Iran Nuclear Negotiations, 12 November 2014, disponibile su http://www.menendez.senate.gov

5. "Will Congress kill an Iran nuclear deal?", CNN, 12 November 2014

6. "Obama Wrote Secret Letter to Iran’s Khamenei About Fighting Islamic State", The Wall Street Journal, 6 November 2014

7. "Iran Nuclear Negotiations Act of 2014", S.2650/H.R.3292, 113th Congress (2013-2014)

8. "Iran Nuclear Pact Faces an Array of Opposing Forces", The New York Times, 16 November 2014

9. "Empowered Republicans wary of Iran talks", Financial Times, 6 November 2014

Davide Borsani, è PhD Candidate in Storia delle Relazioni e delle Istituzioni Internazionali (Università Cattolica del Sacro Cuore).
 
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Iran Teheran USA Obama nucleare negoziati vienna Gop IAEA onu Ali Khamenei
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Davide Borsani
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