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Focus Mediterraneo allargato n.17

Iran: la fitta agenda del nuovo governo di Raisi

Annalisa Perteghella
28 settembre 2021

Si è insediata a inizio agosto la nuova amministrazione guidata da Ebrahim Raisi, eletto lo scorso giugno alla presidenza della Repubblica islamica iraniana. Le sfide che attendono il nuovo presidente sono diverse, tanto sul piano interno quanto su quello regionale e internazionale. A livello domestico, la gestione della pandemia e della grave crisi economica saranno determinanti per garantire stabilità al paese. Rimane inoltre prioritario il dossier nucleare, sebbene i colloqui di Vienna per il ritorno di Stati Uniti e Iran all’accordo del 2015 (Jcpoa) siano momentaneamente in pausa. Al centro dell’agenda regionale e internazionale, vi sono invece le relazioni con i paesi vicini, in particolar modo l’Arabia Saudita, e la ricerca di un nuovo modus vivendi con il neonato Emirato islamico in Afghanistan, guidato dai talebani.

Quadro interno

Sono trascorsi quasi tre mesi dall’insediamento del nuovo governo guidato da Ebrahim Raisi. La nuova compagine governativa si caratterizza per un orientamento strettamente conservatore e una forte vicinanza agli ambienti militari, in linea con il corso assunto dalla politica iraniana a partire dal ritiro statunitense dall’accordo sul nucleare, avvenuto nel maggio 2018. Lo scorso 25 agosto il parlamento iraniano, anch’esso a maggioranza conservatrice, ha approvato la quasi totalità dei ministri scelti da Raisi, con l’eccezione del ministro all’Istruzione, il giovane e inesperto Hossein Baghgholi.[1]

Primo vicepresidente è Mohammad Mokhber, per quattrodici anni a capo di Setad, la potente fondazione presieduta dalla Guida suprema Ali Khamenei, che gestisce attività economiche per miliardi di dollari. La fondazione e lo stesso Mokhber sono tra i soggetti posti sotto sanzioni durante l’amministrazione Trump – sanzioni tuttora in vigore. A capo dell’organizzazione per la gestione del budget, incaricata di redigere e supervisionare i piani di sviluppo economico del paese, è stato nominato Masoud Mirkazemi, già ministro del Petrolio e del Commercio durante il governo Ahmadinejad. Vicepresidente per gli Affari economici è invece Mohsen Rezai, ex comandante pasdaran e più volte candidato – senza mai successo – alle elezioni presidenziali. Il nuovo ministro degli Esteri è Hossein Amir Abdollahian, diplomatico molto vicino al Corpo dei guardiani della rivoluzione, sostenitore della dottrina della “resistenza” che si esplicita nel sostegno a Bashar al-Assad in Siria e a Hezbollah in Libano. Mohammad Reza Ashtiani, anch’egli proveniente dai ranghi pasdaran, è invece ministro della Difesa. Ahmad Vahidi è il nuovo ministro dell’Intelligence; già ministro della Difesa durante l’amministrazione Ahmadinejad, Vahidi è sospettato di aver preso parte all’organizzazione degli attentati al centro ebraico di Buenos Aires nel 1994, quando era a capo delle brigate al-Quds dei pasdaran. Altra nomina indicativa della direzione impressa alla politica iraniana recente è quella di Bahram Einollahi al ministero della Salute. Lo scorso anno Einollahi era stato tra i firmatari di una lettera all’allora presidente Hassan Rouhani affinché mettesse al bando l’importazione dei vaccini sviluppati in Occidente, anche se distribuiti attraverso l’iniziativa Covax.

L’emergenza sanitaria provocata dalla pandemia di Covid-19 rimane del resto a livelli molto alti, a fronte della circolazione delle varianti e di una campagna vaccinale che procede a rilento. Solo il 3% della popolazione, su un totale di 85 milioni di persone, ha completato il ciclo vaccinale, mentre le morti giornaliere sono circa 700.[2]

Altro fronte in emergenza si conferma quello dell’economia. Nel mese di agosto, il Centro iraniano di statistica ha annunciato che il tasso di inflazione nel mese iraniano di Mordad (da metà luglio a metà agosto) ha raggiunto il 45%, con punte del 55% per il settore alimentare. Nello stesso periodo la valuta iraniana (rial) ha perso ulteriori 15 punti percentuali nei confronti del dollaro.[3] Alla luce di questi dati, la promessa del neo-insediato presidente Raisi di migliorare la situazione dell’economia appare di difficile realizzazione.

Nonostante l’insistenza da parte della leadership iraniana sulla capacità di “neutralizzare” le sanzioni,[4] la ripresa economica appare legata proprio alla rimozione delle sanzioni statunitensi, legate a loro volta al negoziato in corso a Vienna per un ritorno di Stati Uniti e Iran all’accordo sul nucleare del 2015. Il cambiamento di amministrazione a Teheran sembra avere ulteriormente rallentato i colloqui, oltre ad aver spostato la Repubblica islamica su posizioni negoziali più massimaliste. L’Iran ha sospeso la propria partecipazione ai negoziati nel mese di giugno, dopo l’elezione di Raisi, per dare modo alla nuova amministrazione di ridefinire le proprie posizioni e assemblare una nuova squadra negoziale. Nel frattempo, alla fine di agosto il presidente statunitense Biden ha ricevuto a Washington il neo-insediato premier israeliano Naftali Bennett;[5] al centro dei colloqui tra i due è stata proprio la questione del ritorno Usa all’accordo sul nucleare e della rimozione delle sanzioni contro Teheran. Israele non ha mai fatto mistero della propria opposizione al negoziato, posizione ribadita da Bennett, che ha confermato che gli obiettivi israeliani nei confronti dell’Iran sono quelli di “fermare la sua azione di aggressione regionale” e “impedire che si doti di un’arma nucleare”. Biden ha ribadito che la propria amministrazione ha scelto la linea della diplomazia”, ma che se questa non porterà ai risultati sperati, è “pronto a valutare altre opzioni”. In risposta, la Guida suprema iraniana Ali Khamenei ha accusato Biden di “non essere diverso dai propri predecessori”. L’impasse sembra dunque lontana dall’essere superata, mentre l’Agenzia internazionale per l’energia atomica ha recentemente avvertito i paesi membri dell’ulteriore allontanamento iraniano dai limiti imposti dal Jcpoa al suo programma nucleare, oltre che della mancata collaborazione di Teheran nel garantire all’Agenzia l’accesso alle videoregistrazioni delle telecamere di sorveglianza installate nei siti nucleari. Con il passare delle settimane e l’irrigidirsi delle posizioni, si teme che la finestra di opportunità per il ritorno congiunto di Usa e Iran al Jcpoa, apertasi con l’elezione di Joe Biden, stia andando progressivamente chiudendosi.

Relazioni esterne

Sul piano regionale sono due le questioni in questo momento prioritarie per la Repubblica islamica: quella del dialogo – mediato dall’Iraq – con i propri vicini del Golfo e quella della gestione della nuova situazione in Afghanistan, dopo la riconquista del potere da parte dei talebani.

Il Summit di Baghdad, ospitato nella capitale irachena dal primo ministro Mustafa al-Kadhimi lo scorso 28 agosto, ha visto la partecipazione di Iran, Arabia Saudita, Egitto, Giordania, Turchia, Qatar, Emirati Arabi Uniti, oltre che del segretario generale del Consiglio di cooperazione del Golfo, della Lega Araba e del presidente francese Macron, co-organizzatore dell’iniziativa.[6] Nel dialogo sono state affrontate questioni quali la guerra in Yemen, la paralisi e il collasso dello stato libanese, la grave crisi idrica che affligge l’intera regione. Sebbene l’incontro non sia stato risolutivo delle numerose controversie e divergenze di vedute tra i paesi partecipanti, il fatto stesso che esso abbia avuto luogo è da salutare come uno sviluppo positivo, alla luce dei livelli di conflittualità raggiunti nella regione fino allo scorso anno.

Inoltre, accanto alla dimensione pubblica e collettiva del summit di Baghdad, sono in corso da alcuni mesi colloqui bilaterali tra Iran e Arabia Saudita, anch’essi facilitati dalla mediazione irachena.[7] Non si parla al momento di ristabilire relazioni diplomatiche ufficiali – dopo l’interruzione che risale al 2016 – ma il mero dato del dialogo rappresenta un cambio di passo importante rispetto al passato recente. Al centro dei colloqui vi è la questione dello Yemen, a fronte di un interesse crescente da parte dell’Arabia Saudita a porre fine a un conflitto che la vede impegnata senza successi reali da sei anni.[8] L’instabilità che ha origine dal fronte yemenita, con lanci di razzi da parte dei guerriglieri huthi verso la capitale e le infrastrutture strategiche saudite, è sempre più questione esistenziale per Riyadh. La posizione di forza assunta dagli huthi sul campo rende però complesso negoziare un’uscita dal conflitto soddisfacente per entrambe le parti.

A est il ritiro statunitense dall’Afghanistan e la repentina conquista del potere da parte dei talebani hanno aperto per Teheran un nuovo arco di instabilità. Sebbene le relazioni tra Iran e talebani siano oggi migliori rispetto al passato, e sebbene l’Iran abbia tenuto in queste settimane un atteggiamento di pragmatismo, il caos aperto dal cambio di governo preoccupa Teheran.[9]

Nel 2001 il sostegno iraniano all’alleanza del Nord e il coordinamento informale con la coalizione Nato a guida statunitense furono fondamentali per il rovesciamento dell’allora Emirato talebano. L’interpretazione radicale dell’islam sunnita operata dai talebani, insieme alla forma statuale dell’Emirato, hanno a lungo rappresentato una minaccia per l’Iran, repubblicano e sciita.

L’Iran ospita da decenni un numero elevato di rifugiati afghani: 780.000 secondo i numeri ufficiali, almeno due milioni se si considerano i migranti privi di documenti. Lo spettro di un nuovo, massiccio, afflusso di persone preoccupa Teheran, soprattutto nelle attuali circostanze che vedono il paese alle prese con la recrudescenza della pandemia e una crisi economica in apparenza senza soluzione. Il traffico di narcotici che origina dall’oppio afghano e, attraverso l’Iran, si dirige verso i mercati europei, è un altro elemento di preoccupazione per la Repubblica islamica, insieme alle sorti della minoranza sciita hazara, storicamente perseguitata dai talebani.

Ma soprattutto, il timore che nel caos afghano possa mettere ulteriori radici lo Stato islamico, nemico sia dell’Iran sia dei talebani, porta la Repubblica islamica a cercare una collaborazione con questi ultimi: collaborazione dettata non dalla fiducia ma dalla necessità. Questa situazione di dialogo necessario ma segnato dalla diffidenza è ben riassunta nella decisione iraniana di mantenere aperti la propria ambasciata a Kabul e il consolato a Herat, ma di sgomberare le missioni diplomatiche a Jalalabad, Kandahar e Mazar-e Sharif, teatro, quest’ultima, dell’uccisione di undici diplomatici iraniani per mano dei talebani nel 1998.

Il fronte est, del resto, si prepara a tornare a essere l’oggetto principale dell’orientamento strategico iraniano per i prossimi anni. Il presidente Ebrahim Raisi ha infatti più volte ribadito che priorità della sua amministrazione sarà il miglioramento delle relazioni con i paesi vicini, e con Russia e Cina. Una conseguenza, anche questa, del deterioramento delle relazioni con l’Occidente dopo il ritiro Usa dal Jcpoa, che ha portato nella leadership iraniana una nuova diffidenza tanto verso gli Stati Uniti quanto verso l’Europa, ritenuta, quest’ultima, incapace di agire in maniera autonoma da Washington anche quando i suoi stessi interessi lo imporrebbero.

[1] “Iran’s parliament approves President Raisi’s conservative cabinet”, AlJazeera, 25 agosto 2021.

[2] Covid-19 special: Focus on Iran, DW.

[3] “Record-Breaking Inflation Confronts Raisi's New Presidency”, IranWire, 24 agosto 2021.

[4] “Administration Not to Tie Economic Growth to Removal of Anti-Iran Sanctions: President”, Tasnim News Agency, 26 agosto 2021.

[5] “Biden, Bennett open new chapter in U.S.-Israel relations with White House visit”, The Washington Post, 27 agosto 2021.

[6] “Iraq hosts summit aimed at easing regional tensions”, AlJazeera, 28 agosto 2021.

[7] “Iran plans new round of talks with Saudi Arabia-Iranian envoy”, Reuters, 31 agosto 2021.

[8] “Saudi Arabia’s scramble for an exit strategy in Yemen”, AlJazeera, 5 aprile 2021.

[9] B. Daragahi, Iran spent years preparing for a Taliban victory. It may still get stung, Atlantic Council, 20 agosto 2021.

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