Lo scenario iraniano si può riassumere in tre elementi: l’Iran sta cercando di sviluppare un arsenale atomico; gli Stati Uniti vogliono impedirlo imponendo un embargo sulle esportazioni di petrolio; Teheran in tutta risposta minaccia di chiudere lo Stretto di Hormuz, attraverso il quale transitano tutte le petroliere che caricano greggio nel Golfo Persico, per circa 17 milioni di barili al giorno. Come risolvere questo enigma strategico?
Si potrebbe iniziare da una considerazione, forse troppo evidente perché sia notata: la minaccia di chiudere lo Stretto di Hormuz è, di per sé, irrealizzabile. Se fosse ostruito, i primi a rimetterci sarebbero proprio gli iraniani, che attraverso questo “collo di bottiglia” marittimo spediscono i loro barili ai mercati internazionali. Alcuni commentatori hanno letto in questa “minaccia impossibile” chiari segnali del disfacimento del regime iraniano. Ha scritto Fareed Zakaria sul Washington Post che «le sanzioni hanno spedito l’economia in picchiata. Il sistema politico è fratturato e in frammentazione». Come evidenza di tutto questo, Zakaria riporta che dall’insediamento di Obama il dollaro si è apprezzato del 60% rispetto alla valuta iraniana. Le sanzioni potrebbero rappresentare il colpo finale.
Quella di Zakaria è una lettura interessante perché chiarisce la situazione, ma corre e abbraccia il rischio di semplificare troppo. Il primo aspetto da considerare è se davvero il sistema politico iraniano sia “in frammentazione”. In realtà, dalle rivolte popolari dell’“Onda Verde” del 2009 siamo di fronte a un passaggio di potere, più che a un disgregamento dello stesso. Fino all’ascesa di Ahmadinejad come presidente, lo scettro del comando era della Guida Suprema, ruolo rivestito prima da Khomeini e attualmente da Ali Khamenei. Con Ahmadinejad c’è stata una sterzata decisa in favore dell’esecutivo, con il supporto della “borghesia cortigiana”. Quest’ultima è incarnata da una serie di fondazioni denominate “Bonyad”, più o meno collegate a settori statali, militari e soprattutto alle Guardie Rivoluzionarie, che sono per Ahmadinejad ciò che l’Fsb è stato per Putin.
Con l’“Onda Verde”, il potere è passato alle sfere direttive delle Guardie Rivoluzionarie e dei riservisti Basij, con il concorso dei militari, i quali tendono a interessarsi più che altro di questioni estere. La minaccia di “chiudere Hormuz” potrebbe essere credibile, se la consideriamo come una diretta emanazione di interessi interni: i militari vogliono dimostrare agli altri gruppi di potere che detengono l’arma totale della chiusura del passaggio marittimo.
C’è poi l’aspetto dell’“economia in picchiata”, che dovrebbe convincere gli iraniani a desistere. Ebbene, questo assunto nega completamente qualsiasi lezione imparata dalla storia dell’Iran. In tutte le occasioni in cui l’Occidente ha operato un qualche tipo d’ingerenza all’interno dell’Iran, i cittadini si sono schierati a fianco del governo, a costo di rimetterci qualche soldo o anche tutto il benessere nazionale.
Si pensi in proposito all’esperienza dei primi anni Cinquanta del dittatore democratico Mohamedd Mossadeq, il premier che sfidò l’autorità dello Scià (mancavano ancora una trentina d’anni alla Rivoluzione Islamica) e statalizzò l’industria petrolifera, attirando le ire dei proprietari inglesi – e un embargo petrolifero molto, molto efficace. Tecnicamente parlando, la statalizzazione di Mossadeq era un disastro, ma tanto era il risentimento anti-inglese, che il popolo sostenne il premier.
La stessa Rivoluzione Islamica del 1979 fu un chiaro atto di rinuncia al benessere petrolifero collegato all’alleanza con gli Stati Uniti. Il paese persiano da quel periodo è sempre rimasto sotto embargo da parte di Washington e gran parte delle potenzialità di produzione iraniane sono inespresse. In particolare ciò è vero per il gas, visto che l’Iran è il secondo paese al mondo per riserve ma non ha infrastrutture di grandi dimensioni per l’esportazione verso l’estero, a parte la pipeline “Tabriz-Ankara” che vale per 14 miliardi di metri cubi di gas l’anno (per paragone, South Stream ne dovrebbe valere 62). Ai fatti, l’aggressività occidentale torna a farsi sentire in Iran in un momento in cui l’Iraq sta aumentando la produzione di petrolio dopo anni di stop e la Libia ha ripreso a tappe accelerate. I movimenti attorno a Teheran terranno il prezzo alto, ma il mondo si può permettere di “rinunciare” ai barili persiani. Nonostante tutta la crisi di Hormuz il prezzo del barile è più basso della quotazione dello scorso maggio.
Alla fine, l’embargo colpirà certamente il sistema economico, ma a livello politico il risultato potrebbe essere uno solo: ravvivare lo spirito nazionalista iraniano, come sempre è successo in casi simili in passato. È da escludere che gli iraniani sosterranno la Guardia Rivoluzionaria che li ha torturati tre anni fa. Potrebbe guadagnarne Ali Khamenei, la Guida Suprema, posizione politica simbolo della Rivoluzione Islamica, essa stessa rivoluzione identitario-nazionalista. Allora, se Khamenei riprenderà il monopolio del comando, si potrà finalmente negoziare una posizione affidabile sul nucleare da parte dell’Iran.