Al pari di Russia e Turchia, l’Iran è un attore non arabo, collocato - dal punto di vista strettamente geografico - ai margini del Medio Oriente comunemente detto, e che però considera tale area tutt’altro che secondaria rispetto alla propria strategia di sicurezza nazionale. Proprio in questa convergenza di interessi è racchiuso lo spazio di cooperazione tra i tre attori riuniti oggi a Mosca in un vertice parallelo - per qualcuno alternativo - alla diplomazia ufficiale condotta a Ginevra sotto l’egida dell’Onu.
Difficile dire se questo sforzo alternativo potrà portare al raggiungimento di una soluzione in grado di far tacere una volta per tutte le armi. Ma di sicuro è utile interrogarsi su quali siano gli obiettivi dei tre paesi in Siria – il loro “disegno” di lungo termine –, quali siano i punti di convergenza delle loro agende e quali invece quelli di divergenza, che possono finire per far pendere la bilancia da una parte o dall’altra. Lo si farà qui di seguito tentando di guardare a questo complesso triangolo dal punto di vista degli obiettivi e degli interessi dell’Iran.
Di un’alleanza in particolare si è tornati a parlare prepotentemente: quella con la Russia di Putin. Lo sforzo congiunto di Mosca e Teheran per riprendere Aleppo e riconsegnarla alle forze lealiste, mentre nel mondo si moltiplicano gli appelli per l’apertura di corridoi umanitari che permettano alla popolazione civile di lasciare la città sotto assedio, è emblematico del loro modo di guardare alla guerra siriana e, su scala più generale, alle relazioni internazionali. Rigetto del debole principio della Responsabilità di proteggere, al contrario strenua difesa del principio di non intervento e non ingerenza negli affari interni di un paese (anche se paradossalmente per gli attori in questione questo implica proprio l’intervento in sostegno dello stato centrale): ciò significa opporsi a qualsiasi forma di intervento esterno in favore del regime change – che sia sotto forma di un aperto intervento oppure di cosiddette rivoluzioni di velluto – e ribadire la supremazia dello stato nella forma del governo centrale di Bashar al-Assad.
Al di sotto di questa convergenza di intenti generale si collocano gli obiettivi specifici per il campo di battaglia siriano. Almeno per il momento, l’obiettivo congiunto di Russia e Iran è quello di salvaguardare il regime di Assad, che rappresenta per entrambi la garanzia che i propri interessi nella regione continuino a venire soddisfatti. Per l’Iran in particolare ciò significa salvaguardare il canale che porta a Beirut, per mantenere aperta la linea di rifornimento verso Hezbollah, e permettere così di continuare a proiettare influenza sul Levante e mantenere la pressione su Israele; in sintesi, assicurarsi profondità strategica. Entrambi i paesi poi insistono sul fatto che il destino di Assad e il suo ruolo nella Siria del futuro debbano essere oggetto di discussione solo una volta giunti al tavolo delle trattative: “Assad must go”, anche nel caso in cui qualcuno ancora la ritenesse un’affermazione credibile, non può essere la pre-condizione per il negoziato. Tuttavia, dalla figura di Assad e dalla durata della sua permanenza al potere passano anche buona parte degli elementi di debolezza di questa alleanza forse più tattica che strategica. Se la linea rossa iraniana è stata finora quella della permanenza di Assad fino alla scadenza naturale del suo mandato presidenziale (2021), Mosca appare più possibilista verso l’ipotesi di una più celere dipartita del presidente siriano, dimostrandosi al contempo più incline al raggiungimento di un accordo su una roadmap che accompagni Assad alla porta ma che al tempo stesso permetta di mantenere a Damasco un regime disponibile ad assecondare gli interessi russi nella regione. Più volte in questi mesi sono emersi segnali che sarebbero indicativi del fatto che il coltello dalla parte del manico in questa strana relazione ce l’ha Mosca: non ultimo, l’annuncio lo scorso 14 marzo del ritiro delle forze russe dalla Siria; fonti vicine agli ambienti di sicurezza di entrambi i paesi affermano che Mosca si è limitata a comunicare a Teheran la decisione, senza consultarla. Obiettivo reale dietro al ritiro, mossa più pragmatica che tattica, era forse proprio segnalare ad Assad che il sostegno militare russo non è assoluto ma condizionato, e che deve accettare di essere coinvolto nel negoziato.
Altra area di potenziale frizione nell’alleanza Mosca-Teheran, oltre al ruolo delle milizie che Teheran dissemina nella regione come parte della propria “strategia della resistenza”, è il futuro dei curdi siriani. L’Iran ha combattuto per anni le istanze irredentiste curde all’interno dei propri confini. Nonostante, insieme alla Russia, faccia parte dello stesso schieramento anti-ISIS dei curdi delle Kurdish Protection Units (YPG), Teheran non vede di sicuro di buon occhio ipotetiche soluzioni federali che possano dare origine a regioni autonome su modello del Rojava (Kurdistan occidentale). La Russia, al contrario, sta dimostrando una certa volontà di utilizzare le relazioni con i curdi come leva utile nel suo riavvicinamento con Ankara.
La Turchia è difatti il terzo vertice di questo triangolo. In Ankara, Teheran ha storicamente trovato una sponda per tenere sotto controllo l’irredentismo curdo, ma lo scoppio della crisi siriana e la sua successiva evoluzione negli ultimi cinque anni hanno contribuito ad aprire un solco tra i due paesi. In Siria, Ankara ha appoggiato il Kurdistan National Council (KNC), una coalizione di partiti con forti legami con i partiti curdi iracheni, in un’ottica di bilanciamento del Syrian Democratic Union Party (PYD), affiliato al PKK. Teheran, al contrario, in questi cinque anni ha sostenuto gli sforzi del PYD in quanto parte, come sopra accennato, della lotta alle opposizioni al regime di Assad. Ma i legami del PYD con gli Usa e l’annuncio, nel marzo 2016, della creazione de facto di una regione autonoma federale (Rojava) nei territori della Siria settentrionale posti sotto il suo controllo, hanno contribuito a un mutamento delle percezioni: Teheran vede ora il PYD forse più come una potenziale minaccia che come un utile alleato.
L’incognita, nelle relazioni tra Iran e Turchia, è se il cambiamento di percezioni sui curdi possa essere strumentale al mitigamento di un’altra divergenza tra i due paesi, che già nel 2013 ha precluso il raggiungimento di un accordo nonostante gli sforzi negoziali allora segreti del ministro degli Esteri iraniano Zarif e di quello turco Davutoğlu: il ruolo di Assad. All’epoca, l’indisponibilità turca ad accettare la partecipazione di Assad alla fase di transizione che avrebbe dovuto portare a un governo di unità nazionale mise la parola fine alle trattative. Dietro a quel secco rifiuto, ha poi ammesso l’allora presidente turco Abdullah Gül, vi era la convinzione da parte della Turchia che la caduta del regime di Assad sarebbe stata questione di pochi mesi. Oggi, che molti dei politici che affermavano “Assad must go” hanno dimostrato di avere vita politica più breve del dittatore siriano, la linea dell’intransigenza non è più una linea percorribile se si vuole arrivare a una soluzione della crisi.
Il ruolo di Mosca in questo momento vuole probabilmente essere quello di mediatore – e kingmaker – delle complesse agende regionali, con un chiaro occhio ai propri stessi desiderata per la regione. I principali nodi che restano da sciogliere sono legati allo status dei curdi, alla disponibilità iraniana ad accettare il compromesso su Assad e a richiamare all’ordine le milizie che combattono boots on the ground per sostenere il presidente siriano. Più che la ricomposizione di un triangolo, la quadratura di un cerchio, argutamente nascosta dietro il paravento della lotta al terrorismo. Nel mezzo, ancora una volta, la popolazione civile di Aleppo e delle tante città e paesi che attendono, da cinque anni, la soluzione di una crisi con troppi attori e troppi interessi sovrapposti.
Annalisa Perteghella, ISPI Research Fellow