Nelle ultime settimane, una serie di esplosioni ha colpito diversi obiettivi sensibili e normalmente considerati sicuri in Iran: il centro di produzione missilistica di Khojir, il centro medico Sina At’har di Teheran, il centro di arricchimento nucleare di Natanz, una fabbrica nella zona industriale di Baqershahr, nei dintorni di Teheran, un quartiere di Teheran che ospita diverse strutture militari e di addestramento dell’IRGC, e ancora un edificio residenziale nella capitale, l’impianto petrolchimico di Mahshahr, principale hub sul Golfo persico dell’industria petrolchimica iraniana, e poi ancora un complesso industriale vicino a Mashad, il cantiere navale di Bushehr, una centrale elettrica a Esfahan.
L’esplosione che ha riguardato l’impianto nucleare di Natanz, in particolare, sembra avere avuto le conseguenze più significative. Immagini satellitari rivelano che l’esplosione ha distrutto tre quarti del centro di assemblaggio delle centrifughe (Iran Centrifuge Assembly Center, ICAC), struttura per la produzione di centrifughe avanzate (IR-2m, IR-4, IR-6), inaugurata nel 2018. Secondo gli esperti, l’esplosione potrebbe essere stata causata da un esplosivo piazzato all’interno della struttura, vicino alle condutture del gas. Non si esclude però l’ipotesi di un attacco cyber che avrebbe manomesso l’impianto del gas causando l’esplosione. La ricostruzione dell’edificio richiederebbe almeno un anno: ciò comporterebbe dunque un significativo rallentamento del programma nucleare, che aveva ripreso velocità negli scorsi mesi dopo la graduale e selettiva riduzione della compliance iraniana all’accordo sul nucleare (JCPOA) in risposta a quella che Teheran ritiene una non corretta implementazione dell’accordo da parte degli europei, sotto il ricatto delle sanzioni Usa.
Nonostante le autorità iraniane abbiano etichettato gli episodi come semplici incidenti – con la sola eccezione dell’esplosione di Natanz, la cui responsabilità è stata attribuita a “nemici esterni” – il numero e le modalità degli attacchi fa pensare a una vera e propria azione coordinata e ben pianificata di sabotaggio. E se la lista dei paesi che avrebbero interesse a compiere tali azioni è nutrita, quelli che ne hanno le effettive capacità si riducono a due: Israele e Stati Uniti. Già nel 2010 Tel Aviv e Washington erano stati i principali sospettati degli attacchi cyber (il malware Stuxnet, parte dell’operazione Giochi olimpici) che avevano colpito numerose infrastrutture iraniane, tra cui lo stesso impianto di Natanz. Israele era stato inoltre ritenuto il mandante degli assassini mirati di scienziati nucleari iraniani. Tutte azioni, queste, che risalgono a prima del JCPOA e che avevano l’obiettivo di rallentare il programma nucleare di Teheran.
Gli attacchi: perché ora?
Se intenzionali, gli attacchi di queste settimane permetterebbero di raggiungere molteplici obiettivi: colpendo Natanz, così come in altri siti militari, si infliggono danni, più o meno significativi, al programma nucleare e alle infrastrutture militari iraniane, potenzialmente inficiandone le capacità di offesa e difesa. Si instilla poi nel paese un senso di insicurezza che getta le basi per una potenziale destabilizzazione: facendo apparire le autorità iraniane come incapaci di controllare ciò che accade nel paese, si spalancano le porte all’azione di numerosi gruppi attivi da anni sul territorio iraniano o all’esterno del paese, che mirano al rovesciamento dell’attuale sistema (i Mojaheddin-e Khalq, per esempio, ma anche i numerosi gruppi autonomisti attivi nel sud-ovest e nel sud-est del paese).
Si instilla poi un senso di sospetto: la pervasività e la raffinatezza degli attacchi condotti lascia supporre che qualcuno all’interno dell’apparato di sicurezza e intelligence iraniano abbia fornito informazioni a governi stranieri, sensazione già emersa a proposito dell’attacco statunitense che ha portato all’uccisione di Qassem Soleimani lo scorso gennaio. Dietro alle azioni di sabotaggio potrebbe poi esserci l’intento di provocare l’Iran e costringerlo a una reazione militare massiccia, ma non allo scopo, come sostengono alcuni, di fornire un pretesto per un intervento militare statunitense di regime change. Piuttosto, per indurlo a una accelerazione del proprio programma nucleare o ad altre azioni offensive che portino Europa, Russia e Cina a sostenere la campagna statunitense di “massima pressione”.
Proprio il presagio che l’amministrazione Trump possa essere costretta a lasciare la Casa Bianca il prossimo gennaio, potrebbe aver determinato l’accelerazione attuale, prima che una probabile amministrazione Biden possa fare ritorno al JCPOA o possa cercare con Teheran un compromesso simile. La limitata risposta iraniana all’uccisione del generale Qassem Soleimani, poi, potrebbe aver convinto gli avversari della Repubblica islamica di una incapacità o indisponibilità da parte iraniana a cercare l’escalation.
Quale possibile reazione iraniana?
Come già detto, le autorità iraniane non riconoscono pubblicamente la natura dolosa degli episodi. Farlo, implicherebbe la necessità di fornire una qualche risposta. Anche nel caso di Natanz, difficile da derubricare a semplice incidente, si è riconosciuta la natura dolosa ma non sono stati indicati i sospetti responsabili. La leadership iraniana è attualmente sottoposta al seguente dilemma: rispondere o attendere? Nel primo caso, fornire una risposta (che potrebbe andare da una accelerazione del programma nucleare a attacchi asimmetrici nella regione) permetterebbe al paese di salvare la faccia, ma rischierebbe di alienare il consenso che Europa, Russia e Cina accordano, almeno a parole, alla Repubblica islamica nel più ampio contenzioso su nucleare e altro con gli Stati Uniti. Nel secondo caso, attendere e non fornire alcuna risposta, comporta il rischio di apparire deboli ma la posta in palio all’orizzonte è quella del cambio di amministrazione a Washington, e della fine della politica della massima pressione (quindi delle sanzioni), obiettivo prioritario di Teheran. L’Iran sembra dunque scegliere la “pazienza strategica”, limitando i danni (della perdita di faccia) non riconoscendo esplicitamente la natura dolosa degli attacchi. Troppo alta infatti è la posta in gioco nei prossimi mesi.
Il nodo AIEA e l’embargo ONU sulle armi
Non è possibie analizzare motivi e implicazioni degli episodi di queste settimane senza inserirli nel quadro più ampio della complessa partita in corso in questi mesi, che in autunno è destinata a entrare in fasi ancora più calde.
In settembre, un nuovo meeting del board dei governatori dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) potrebbe portare al varo di una risoluzione che accusi l’Iran di mancato rispetto dei termini dell’accordo di salvaguardia del Trattato di Non Proliferazione (NPT), dopo che dal meeting del board dello scorso giugno è emersa una risoluzione che invita l’Iran a cooperare pienamente con le indagini dell’agenzia circa alcune attività nucleari sospette risalenti al periodo pre-2003 (dunque prima che la questione del programma nucleare iraniano si imponesse all’attenzione della comunità internazionale). La risoluzione, introdotta da Francia, Germania e Regno Unito (gli stessi paesi europei parte del gruppo che ha negoziato il JCPOA), è la prima di questo tipo dal 2012, e fa seguito al rapporto del Direttore Generale dell’AIEA Rafael Grossi dello scorso marzo. Nel rapporto si denunciava che le richieste di chiarimento circa possibili attività nucleari in tre siti ritenuti sospetti, formulate dall’agenzia nel gennaio 2019, erano rimaste inevase da Teheran, così come le richieste di accesso a due di questi siti formulate nel gennaio 2020. Le preoccupazioni dell’AIEA non sono rivolte a possibili attività nucleari sospette in corso – non ne sono state infatti riscontrate – bensì a una possibile violazione da parte iraniana dell’accordo di salvaguardia e protocollo addizionale dell’NPT, che impongono al paese di dichiarare le attività condotte in passato e di fornire agli ispettori dell’Agenzia il pronto accesso ai siti.
La risoluzione AIEA dello scorso giugno ha scatenato dure reazioni in tutto il panorama politico iraniano. Il neo-speaker del parlamento, il conservatore Mohammad Baqer Qalibaf, si è posto alla guida di una maggioranza parlamentare che invoca una risposta decisa, tra cui la cessazione dell’implementazione del Protocollo addizionale e/o il ritiro dall’NPT. Ma anche il ministro degli Esteri Zarif, prima del voto, aveva messo in guardia il Board of Governors dal permettere ai “nemici del JCPOA” di mettere a repentaglio gli interessi iraniani, chiedendo agli E3 di non fare da “meri accessori” e ribadendo che il paese è già sottoposto a un rigidissimo e pervasivo sistema di ispezioni. Nel rapporto AIEA di marzo si cita una risposta informale iraniana pervenuta all’agenzia riguardo alle proprie richieste di chiarimenti, in cui Teheran dichiarava di avere già fornito tutti i chiarimenti sulle proprie attività nucleari passate come richiesto dal JCPOA (sezione c, paragrafo 14), e come successivamente riconosciuto dalla risoluzione del board of governors AIEA del 15 dicembre 2015 (GOV/2015/72). L’Iran contesta inoltre il fatto che le informazioni sulla base delle quali l’Agenzia ha elaborato le proprie ultime posizioni sarebbero state fornite da Israele, a seguito del raid compiuto dal Mossad nel gennaio 2018 in un magazzino nella zona industriale di Teheran che avrebbe permesso al paese di raccogliere informazioni segrete circa le attività nucleari iraniane.
La strategia di Teheran
Il timore iraniano è che sia in atto un esercizio di pressione diplomatica sull’Agenzia allo scopo di arrivare a settembre a una risoluzione di condanna nei confronti di Teheran e al conseguente deferimento della questione al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che a quel punto potrebbe decidere di introdurre (o reintrodurre) sanzioni contro Teheran, portando di fatto alla fine effettiva del JCPOA. Soprattutto, tale scenario offrirebbe la sponda agli Stati Uniti per far passare la risoluzione preparata da Washington nelle scorse settimane che estende per un periodo illimitato l’embargo Onu sulla vendita di armi da e all’Iran.
La scadenza dell’embargo, secondo quanto previsto dal JCPOA e riportato nella risoluzione 2231 del Consiglio di Sicurezza, è prevista per il 18 ottobre di quest’anno. Già da settimane però gli Usa sono impegnati in un’offensiva diplomatica affinché i membri permanenti del Consiglio appoggino la richiesta di estendere l’embargo. Se Cina e Russia (che hanno votato contro la risoluzione AIEA dello scorso giugno) appaiono fermamente opposte all’estensione dell’embargo, gli europei starebbero lavorando a una soluzione di compromesso che estenda per un periodo limitato l’embargo, e solo su alcuni tipi di armamenti.
In conclusione, in questo contesto appare chiaro come il calcolo strategico iraniano, nel decidere la risposta alle azioni di sabotaggio, sia fortemente guidato dalla necessità di non fornire a Europa, Russia e Cina alcun pretesto per appoggiare misure punitive in sede di Consiglio di Sicurezza, siano esse il risultato di un deferimento della questione nucleare da parte dell’AIEA o la richiesta di Washington di estendere l’embargo sulla vendita e l’acquisto di armamenti. Una risposta sotto forma di attacchi militari asimmetrici contro alleati Usa nella regione del Golfo, come l’attacco agli impianti Aramco dello scorso settembre, potrebbe portare all’escalation, così come attacchi contro obiettivi israeliani.
Se si osserva il trend di mancata risposta iraniana ai diversi attacchi compiuti da Israele in questi anni contro obiettivi iraniani in territorio siriano, appare chiaro come la leadership iraniana sia restia a cercare l’escalation con Tel Aviv, limitandosi piuttosto a attacchi nel dominio cyber – dunque di difficile attribuzione – come quelli compiuti negli scorsi mesi (e, non a caso, negli scorsi giorni) contro il sistema idrico israeliano. Con il possibile cambio della guardia alla Casa Bianca a seguito delle elezioni del prossimo novembre, “pazienza strategica” sembra essere la parola d’ordine, allo scopo di ottenere da una eventuale amministrazione Biden l’allentamento del pesante regime sanzionatorio imposto da Trump. Perlomeno a patto che i responsabili delle operazioni di sabotaggio di queste settimane non decidano di alzare ulteriormente la posta in gioco e colpire in maniera significativa ulteriori obiettivi cruciali come Natanz. A quel punto per la Repubblica Islamica aumenterebbero gli incentivi a fornire una risposta calibrata, che potrebbe essere preludio a un’escalation. Quello in corso, dunque, è l’ennesimo gioco pericoloso, che da mesi mantiene la regione in un equilibrio instabile: un semplice errore di calcolo potrebbe portare alla deflagrazione di un conflitto dalle conseguenze rovinose.