In questi giorni l’Iran ricorda il trentunesimo anniversario della rivoluzione islamica. All’atto di scrivere questa nota le commemorazioni sono ancora in corso e non si può fare un’analisi circostanziata degli eventi. Probabilmente essi confermeranno che il movimento nato dopo i brogli elettorali del giugno 2009 non è vinto. D’altro lato, le dimostrazioni di strada difficilmente chiariranno se l’opposizione stia guadagnando terreno o meno. Come in altre occasioni recenti, nell’assenza di qualche colpo di scena le previsioni rimarranno molto speculative.
Governo e opposizione continuano a vivere alla giornata. L’opposizione soffre di debolezze che rischiano di diventare croniche. In primo luogo, manca una leadership incontaminata e carismatica.
In secondo luogo, a parte il rifiuto del presidente Ahmadinejad, non esiste una visione politica comune. Indicativo a questo riguardo è il profondo divario tra chi vuole la caduta del regime e coloro – per il momento la maggioranza – che cercano la democratizzazione del governo islamico.
Le debolezze del Movimento Verde nulla tolgono alla gravità della crisi che ha colpito il leader supremo Khamenei e il governo di Ahmadinejad. Le sue radici risalgono all’atto di nascita del regime, la costituzione che l’ayatollah Khomeini portò da Parigi atterrando trionfalmente a Tehran nel febbraio 1979. Nel corso degli anni è diventata evidente l’impossibilità di riconciliare le due anime di questa costituzione, una teocratica e assolutista e l’altra repubblicana e rappresentativa. Quanto successo nel giugno scorso e ciò che lo ha preceduto e seguito costituiscono l’ultima e categorica conferma del problema; la repubblica islamica trema nelle sue fondamenta ideologiche e istituzionali.
Non è immaginabile che il regime nella sua composizione attuale, pur avendo il sostegno di importanti ceti popolari, riesca a far rientrare la crisi. Un profondo cambiamento è inevitabile. Come e quando tale cambiamento avverrà è però ancora difficile a dirsi. Molto dipenderà dalle scelte di un governo che vacilla goffamente tra compromesso e uso della forza. La più recente tendenza verso una repressione dura potrebbe risultare in qualche azione particolarmente violenta o provocatoria, precipitando la situazione fuori dal controllo di entrambe le parti. In quanto all’opposizione, nell’assenza di una struttura adeguata dovrà soprattutto lottare per sopravvivere; nel breve termine, la sua arma migliore continuerà a essere l’inettitudine del governo.
Nel seguire questi eventi è fondamentale interpretarli alla luce della complessa realtà iraniana e non alla luce delle attese occidentali.
Bisogna anche distinguere tra politica interna e altri temi d’interesse internazionale quale il nucleare. Sciaguratamente, l’escalation sulla vera o presunta minaccia nucleare iraniana conviene sia ad Ahmadinejad che ai suoi oppositori stranieri. Si rischia di passare dalle parole ai fatti a rimorchio di una retorica allarmista e incoerente. Ciò avrebbe gravi conseguenze anche sul processo in corso a Tehran. L’Occidente e i suoi alleati non devono dimenticare le lezioni dell’Iraq e di altri vecchi e recenti interventi in Iran e nella regione.