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Commentary

Iran: un'intesa storica per quattro ragioni

Armando Sanguini
16 luglio 2015

Lunghi anni di negoziato, dodici nell’insieme, condotti ufficialmente e segretamente; poi il loro rilancio con l’arrivo alla presidenza di Rouhani, la bozza d’intesa preliminare, i diversi rinvii, quindi i “Parametri” dell’aprile scorso; la scadenza del 30 giugno prorogata al 7, poi al 9 e infine la conclusione il 14 luglio. 

Negoziato faticoso quanto può essere una trattativa galleggiante su un mare di sfiducia reciproca. Ma alla fine la navigazione è arrivata in porto, con circa cento pagine di Accordo includenti ben cinque annessi tecnici: un carico impressionante di parole e di carta con le quali si sono fissati i termini di un patto che non sembra essere esagerato definire storico. Se verrà applicato seriamente, senza sotterfugi o prevaricazioni.

Sono almeno quattro le ragioni che giustificano l’affermazione di "portata storica" dell’accordo: 

Intanto perché tutte le parti in causa – in particolare Stati Uniti e Iran, i due protagonisti della vicenda – hanno saputo tirare la corda della trattativa fino all’estrema difesa dei rispettivi interessi in gioco, evitando che si spezzasse. Confermando l’estrema rilevanza di tale accordo che «non si poteva non concludere»: per ragioni di prestigio, certo, ma soprattutto per motivi politico-strategici e socio-economici di primaria rilevanza. 

Per Barack Obama si trattava del vero “successo” che andava cercando in politica estera, fors’anche per legittimare a posteriori un premio Nobel per la pace quantomeno intempestivo. Per il presidente iraniano Rouhani si è trattato invece del rispetto della promessa di liberare il paese dalle sanzioni, sullo sfondo di una riaffermata sovranità e rispetto della dignità nazionale. Per le altre parti in causa, cioè Russia, Regno Unito, Francia (membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite) e Germania, dell’importanza dell’aver contribuito a un fondamentale esercizio di “governance internazionale intergovernativa” malgrado evidenti criticità dei loro rispettivi rapporti bilaterali su altri fronti geopolitici e debolezze denunciate in questa fase dalla massima rappresentanza della governance multilaterale istituzionalizzata, le Nazioni Unite. Per l’Unione Europea, alias l’alto rappresentante Mogherini, un meritorio ruolo di coordinamento.

Tra le altre ragioni che conferiscono grande specialità a quest’accordo vorrei citare il fatto che esso

• rappresenta il concreto esempio della possibilità di trovare una soluzione negoziata, dunque politica, e non militare, in materia di armamento nucleare. Un patto di reciproche garanzie che in estrema sintesi può essere espresso in questi termini: per l’intera Comunità internazionale, rappresentata dai predetti “5 +1”, la garanzia che l’Iran non potrà dotarsi della capacità di costruzione dell’arma nucleare - ciò che questo paese, per la verità, ha sempre dichiarato di non volere – per almeno 10 anni salvo incorrere in serie penalizzazioni; per Teheran la garanzia della rimozione della cappa soffocante delle sanzioni imposte nel corso degli anni da singoli stati (in primis gli Stati Uniti), dall’Unione Europea e dalle Nazioni Unite e dunque della sua riammissione alla piena cittadinanza politica ed economica internazionale. L’Iran, non dimentichiamolo, è accreditato di 150 miliardi di barili di petrolio (4° posto mondiale, il primo per il gas), rappresenta un mercato assai appetibile in termini economici e commerciali e ha un patrimonio storico-culturale di straordinario valore.

• interrompe una storia di contrapposizione radicale tra Iran e Usa – il grande Satana per l’uno, una minaccia del terrore per l’altro – lunga ben 37 anni e apre un importante spiraglio verso un graduale miglioramento dei rapporti tra i due paesi. Ci vorrà del tempo e degli atti concreti di una parte e dell’altra per superare le rispettive ragioni di ostilità o comunque di diffidenza; ma un passo iniziale in quella direzione è stato compiuto.

• ricolloca l’Iran tra gli assi portanti dell’equilibrio di un’area tanto tormentata quanto di nevralgica importanza sia sulla direttrice est-ovest (Medio Oriente-Asia) sia su quella nord-sud (Eurasia-Golfo Persico) in una chiave auspicabilmente costruttiva e non solo di legittimità formale e di rapporti di forza. Auspicabilmente perché ben nota è la politica di destabilizzazione che l’Iran continua a portare avanti in Medio Oriente e non solo, come è stato più volte dichiarato dal Segretario di stato americano Kerry.

Si volta dunque pagina? 

Sembra proprio di sì. È vero che adesso il Congresso, a maggioranza repubblicana, potrà “rivedere” il testo, e lo farà in termini decisamente critici nei 60 giorni previsti per il dibattito in materia, ma ben poco potrà fare per contrastare il potere di veto di cui il presidente è depositario. E Obama ha già dichiarato che eserciterà tale diritto, mettendo in avviso il Congresso, ma anche Israele. E poco importa se non potrà impedire la rimozione delle sanzioni decise dal Congresso stesso per i due mesi in questione. Importa che, valorizzandone soprattutto l’imbracatura anti-nucleare che costituisce l’impianto di fondo dell’accordo, stia cercando di renderlo digeribile al Congresso e agli iranofobi americani – continuando lui stesso a identificare Teheran come un avversario se non come nemico.

Il presidente Rouhani, ben consapevole del cospicuo frutto raccolto a favore dell’economia e della popolazione iraniana grazie alla rimozione delle sanzioni, ha tenuto a rivendicare la capacità negoziale della delegazione iraniana e soprattutto il riscatto della dignità e dell’orgoglio nazionale. Con ciò cercando di tacitare i propri oppositori interni, già ammansiti, per la verità, da un Khamenei abile navigatore tra loro e la sua squadra di governo, che di fatto ha sempre sostenuto. 

Netanyahu ha reagito in maniera scomposta, ma l’accordo adesso c’è e Tel Aviv dovrà farsene una ragione. Del resto non ha concrete alternative; non politiche con il Congresso americano, né tanto meno militari. Forse dovrebbe rivedere la sua posizione attuale rispetto all’accordo, così come quella riguardo alla questione palestinese, ma non lo farà se non obbligato.

Ben diversa la reazione pacata dell'Arabia Saudita – l’accordo sarà positivo se bloccherà l’arsenale nucleare iraniano – che comunque considera fortemente problematico il rapporto con il suo grande antagonista regionale. Al punto da indurla a imboccare, nell’ampio contesto di una strategia di allargamento del suo orizzonte geopolitico e geo-economico oltre i confini delle sue storiche relazioni con gli Usa, la strada di un duro confronto egemonico a livello regionale con l’Iran. Ne sono indicatori di rilievo il riavvicinamento con la Turchia e soprattutto lo schieramento politico-militare arabo che Riyadh è riuscita a mettere assieme nella guerra per procura ingaggiata in Yemen.

Molto dipenderà dalla prossima linea di condotta di Teheran, sia in materia di osservanza delle verifiche periodiche che si è impegnata ad accettare sotto la spada di Damocle del ripristino pressoché immediato delle sanzioni; sia in chiave di ricerca di un modus vivendi il meno conflittuale possibile con il mondo sunnita, turco e arabo in particolare. Il comune nemico del Califfato potrebbe aiutare, ma non se l’azione anti-IS dovesse consolidarsi a danno delle tribù sunnite irachene e a vantaggio di Bashar al-Assad in Siria.

Tutto dipenderà dall’applicazione pratica di quest'accordo che costituirà la vera e inequivocabile lettura del compromesso raggiunto, tanto realistico e sostenibile, a giudizio di chi scrive, in quanto nessuna delle parti può dirsi vincente o perdente.

Armando Sanguini, ISPI Scientific Advisor, già Ambasciatore d’Italia in Tunisia e Arabia Saudita.
 
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Medio Oriente Iran Accordo sul nucleare Stati Uniti Obama Rouhani Israele Congresso americano Riyadh Benjamin Netanyahu Arabia Saudita
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Armando Sanguini
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