Una settimana fa la minaccia iraniana di chiudere lo stretto di Hormuz (i 54 km dove transita il 20% del petrolio mondiale) in ritorsione verso le nuove e più dure sanzioni firmate da Obama. Poi la dura risposta americana («non tollereremo il blocco») con una portaerei della Quinta Flotta provocatoriamente mandata ad attraversare lo stretto. Pochi giorni dopo, l’esercitazione della marina iraniana con il lancio di missili di media gittata, ovvero in grado di colpire le basi Usa in Bahrain. Le previsioni di cui attribuiva alle vicende iraniane un ruolo di primo piano fra i fronti “caldi” del 2012 sembrano avverarsi già nei primi giorni del nuovo anno. Perché? Con quali possibili evoluzioni (e rischi)? Il paese sta vivendo da mesi una durissima crisi interna che è contemporaneamente politica (lo scontro ormai esplicito e senza quartiere fra il vertice religioso e quello politico incarnato dal presidente Ahmedinejiad) ed economica, per gli effetti sempre più pesanti che le sanzioni occidentali stanno avendo su un paese già indebolito da anni di mancate riforme. Al governo di Teheran è ben chiaro che dopo l’ultimo rapporto Onu che denuncia con chiarezza l’avanzare del suo progetto nucleare, la comunità internazionale non tarderà a imporre sanzioni ancor più dure, probabilmente il temuto embargo alle esportazioni di petrolio che segnerebbe il crollo definitivo dell’economia e, probabilmente, del regime. Agli iraniani non sfuggono poi le conseguenze delle rivolte arabe che, pur non avendo attecchito nel paese hanno rafforzato nella regione i nemici storici di Teheran (Arabia Saudita e Qatar) e indebolito irrimediabilmente i pochi amici su cui potevano contare (in primis, la Siria di Hassad). Alzano dunque i toni, minacciando per non essere minacciati. Gli iraniani alzano i toni convinti che l’America di Obama, indebitata, cauta nell’impegno militare in Libia, appena uscita dal pantano iracheno e ansiosa di uscire da quello afghano, non avrà il coraggio di attaccare militarmente il paese. Gli americani rispondono con voce altrettanto grossa, a loro volta convinti che Teheran non avrà il coraggio di andare sino in fondo con le sue minacce. Gli uni e gli altri sanno di aver solo da perdere da un’esplosione della crisi. È molto probabile, infatti, che la minaccia Usa di un embargo petrolifero – mentre Iraq, Siria e Libia producono ancora al di sotto delle potenzialità – innalzi il prezzo del greggio addensando pericolose nubi sulla debole ripresa americana alla quale sono appese le ambizioni elettorali del debole Obama. È altrettanto probabile che la minacciata chiusura iraniana dello stretto di Hormuz si ritorca pesantemente sui suoi ideatori, indebolendo ulteriormente l’economia iraniana visto che dallo stretto passa buona parte della benzina del paese, privo di impianti di raffinazione adeguati nonostante l’abbondanza di petrolio. Doppio bluff, dunque. Un bluff estremamente pericoloso perché non fa i conti con il terzo incomodo, Israele, che si sente sempre più minacciato dai progressi nucleari di un paese che contesta apertamente la sua esistenza e che dai toni forti americani pare trarre la conclusione di poter agire da solo (e senza ulteriori autorizzazioni da Washington) ad attaccare militarmente il nemico iraniano. Non fa i conti neppure con il difficile anno elettorale che Obama ha iniziato ieri con le primarie repubblicane in Iowa: un anno nel quale i candidati repubblicani “duri e puri” non esiteranno a mettere in discussione i suoi tentennamenti in politica estera e le sue doti di leader militare, da sempre il tallone di Achille dei presidenti democratici. Una risposta “muscolare” ai toni minacciosi iraniani potrebbe essergli di aiuto nel ribaltare il quadro interno e magari per distrarre i suoi elettori delusi per una ripresa economica che tarda ad arrivare. Forse sullo stretto di Hormuz servono nervi saldi, non giocatori d’azzardo.
ISPI Senior Advisor