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Focus Mediterraneo Allargato n.12
Iraq: il difficile viene adesso
Francesco Salesio Schiavi
21 febbraio 2020

Nonostante i deboli cenni di ripresa, registrati dopo la chiusura di una delle fasi più nere della sua storia, siano stati interpretati da molti come segnali incoraggianti di un ritrovato equilibrio del paese, a oggi l’Iraq sembra incapace di portare la tanto sperata stabilità e di colmare le distanze che separano la sua popolazione dalla classe politica irachena. Da oltre quattro mesi, infatti, l’Iraq è attraversato da una forte ondata di proteste contro la disoccupazione, la corruzione dilagante e la mancanza di accesso ai servizi essenziali. La dura repressione delle forze di sicurezza irachene ha poi causato la morte di centinaia di manifestanti, oltre a diverse migliaia di feriti. La perseveranza dei manifestanti ha portato all’inizio di dicembre alle dimissioni del primo ministro Adel Abdul-Mahdi, il quale è però rimasto provvisoriamente in carica fino all’insediamento di un nuovo esecutivo in grado di assicurare una transizione stabile in vista di un nuovo ciclo di elezioni. Il mancato raggiungimento della stabilità non è da attribuire unicamente alle dinamiche interne dell’Iraq, quanto anche a quelle regionali. Le rinnovate tensioni tra Stati Uniti e Iran, i principali partner internazionali dell’Iraq, hanno infatti seriamente compromesso il già precario equilibrio interno, esacerbando l’intolleranza della popolazione nei confronti delle ingerenze stranire nel paese.

Quadro interno

Il quadro politico interno iracheno risente fortemente della grande ondata di dissenso che, a partire dall’ottobre 2019, ha interessato gran parte del paese. La stagnazione istituzionale dovuta alle difficoltà della classe dirigente irachena di formare un nuovo esecutivo dopo le dimissioni del primo ministro Adel Abdul-Mahdi a inizio dicembre, unita alle crescenti tensioni sorte dalla crisi tra Stati Uniti e Iran, hanno avuto un forte impatto negativo sui fragili equilibri del paese.

Dopo una prima fase spontanea di manifestazioni (1-9 ottobre 2019), sorta in risposta alla rimozione dal comando delle Forze antiterrorismo del generale Abdul-Wahab al-Saadi, decorato eroe della campagna di liberazione contro lo Stato Islamico e baluardo di apoliticità rispetto alle continue interferenze delle classi dirigenti negli affari interni delle forze armate irachene,[1] i cittadini iracheni sono nuovamente scesi in piazza il 25 ottobre, questa volta con l’adesione di un più ampio supporto della società civile. Dalla capitale, l’ondata di proteste si è presto riprodotta su scala nazionale, propagandosi a macchia d’olio alle principali città di 11 governatorati dell’Iraq centro-meridionale. I motivi del malcontento della popolazione irachena riguardano soprattutto la dilagante corruzione della classe dirigente del paese, il tasso allarmante di disoccupazione giovanile (soprattutto quella istruita, attestata intorno al 40%),[2] l’aumento del carovita, la carenza di servizi essenziali, la distribuzione settaria del potere e le continue ingerenze straniere negli affari interni del paese. Le proteste si caratterizzano per la trasversalità e l’ampia partecipazione di tutte le comunità del paese, con una forte predominanza di giovani sotto i 30 anni (una fascia d’età che abbraccia il 67% della popolazione) dichiaratisi indipendenti da qualsiasi faziosità politica o religiosa.[3]

Le conseguenze del protrarsi per mesi e su scala nazionale delle proteste sono state rilevanti. Da un lato, il progressivo inasprimento dei tumulti ha provocato una spirale di violenza che è stata abbracciata tanto dai rivoltosi quanto dalle Forze di sicurezza irachene. In più di un’occasione, alcune formazioni dei reparti di polizia e delle Unità di mobilitazione popolari (Hashd-al-Shaabi) vicine all’Iran hanno fatto uso della forza per reprimere le proteste, con attacchi ai media, arresti, l’imposizione del coprifuoco e il blocco di internet.[4] Particolarmente allarmanti sono le numerose testimonianze che riportano l’impiego di munizioni letali e di tiratori scelti per disperdere i manifestanti, assommatisi al regolare utilizzo di cannoni ad acqua e di gas lacrimogeni.[5] Secondo i dati più recenti, il bilancio delle vittime si attesta su centinaia di morti e decine di migliaia di feriti.[6] Dall’altro, la violenta repressione da parte delle forze di sicurezza ha ulteriormente antagonizzato il movimento di protesta nei confronti del governo iracheno, giudicato incapace di realizzare le riforme tanto invocate nelle piazze. Ciò ha ulteriormente rafforzato tra la popolazione irachena l’idea che un vero cambiamento nel paese non possa avvenire attraverso la politica formale, ma solo tramite i movimenti di protesta.

A fine novembre, il Grande Ayatollah Ali al-Sistani, la massima autorità sciita del paese, ha esortato il parlamento a togliere la fiducia all’esecutivo. A distanza di pochi giorni, il primo ministro iracheno Adel Abdul-Mahdi ha rassegnato le sue dimissioni, ufficialmente accettate dal Concilio dei rappresentanti il 1° di dicembre.[7] Con le dimissioni di Abdul-Mahdi (ma non dell’esecutivo, rimasto provvisoriamente in carica per assicurare una transizione stabile), il presidente iracheno Barham Saleh ha avviato il processo (notoriamente lungo) di selezione di un nuovo primo ministro incaricato di formare un esecutivo in grado di guidare il paese verso un ciclo di elezioni anticipate. Dopo un procrastinato periodo di vuoto istituzionale, contraddistinto da lunghe trattative e dal veto posto a fine dicembre alla designazione della carica di Asaas al-Eidan, governatore del governatorato di Bassora e sostenuto dalla coalizione al-Bina, il 1° febbraio il presidente iracheno Salih ha finalmente designato Muhammad Tawfiq Allawi come nuovo primo ministro del paese.[8]

Rimane non chiaro, comunque, quanto la formazione del gabinetto di Allawi, che non gode del favore di buona parte del movimento di protesta[9] ed è privo di un forte sostegno politico in seno al parlamento iracheno, possa effettivamente svolgere il compito per cui sia stato designato (soprattutto riguardo alle tempistiche di selezione indicate nella Costituzione – entro 30 giorni dalla nomina). Come dimostra il lungo periodo “di gestazione” che ha richiesto il governo di Abdul-Mahdi, il cui insediamento è avvenuto più di 5 mesi dopo le elezioni di maggio 2018 (senza, peraltro, che si fosse raggiunto un accordo su tutti i ministeri),[10] la selezione di un nuovo esecutivo da parte di Allawi rischia infatti di impantanarsi nella consueta competizione tra i principali partiti politici. In particolare, il veto imposto dal nuovo premier circa la nomina di candidati selezionati dai partiti per ricoprire le cariche ministeriali rappresenterà sicuramente un forte ostacolo, nonostante il riconoscimento formale della sua candidatura da parte dalla maggior parte dei partiti iracheni (non per ultimo quello di Moqtada al-Sadr, a guida il partito di maggioranza in parlamento).[11] Nel mentre, le proteste non accennano a diminuire e un ritorno alla coesistenza pacifica è chiaramente subordinato alla capacità del governo di soddisfare (almeno in parte) le richieste delle piazze.

Per quanto riguarda la sfera economica, le prospettive del primo semestre 2020 per l’Iraq risultano in generale positive. Nonostante la crisi istituzionale e il dilagante malcontento della popolazione irachena, il Fondo monetario internazionale stima il Pil iracheno in crescita (pari al 4,7%), superiore ai valori del secondo semestre dell’anno precedente, in massima parte grazie all’aumento del costo del greggio.[12] In ambito regionale, l’obiettivo di trovare nuovi sbocchi e nuovi mercati per il crescente export iracheno ha portato il governo di Baghdad a stabilire già le tempistiche per la costruzione di un oleodotto che colleghi i porti di Rumalia (Bassora) e di Aqaba.[13]

Relazioni esterne

Sul piano internazionale da tempo l’Iraq ha adottato un atteggiamento pragmatico e bilanciato, in grado di garantirgli uno status di mediatore nel sempre più teso scacchiere regionale. In una simile prospettiva, Baghdad ha invocato una posizione di neutralità nei confronti dei suoi principali partner internazionali, gli Stati Uniti e i paesi del Golfo da una parte e l’Iran dall’altra. Ciò nonostante, una simile politica è stata più volte inficiata dal recente inasprirsi della crisi tra Washington e Teheran, i cui effetti si sono propagati anche all’interno del territorio iracheno.

Una prima evidente conseguenza delle ostilità in corso fra Stati Uniti e Iran è stato il rafforzamento della percezione di questi attori stranieri come minaccia da parte di diverse comunità irachene, in particolare dell’Iran. Sin dall’inizio delle proteste, le piazze hanno chiaramente dimostrato di non apprezzare le interferenze iraniane, percepito come attore sempre più invadente nelle questioni di politica interna (come dimostrano gli slogan anti-iraniani ricorrenti per le strade). In più di un’occasione, poi, i manifestanti hanno preso di mira le rappresentanze diplomatiche di Teheran, dando alle fiamme i consolati iraniani a Najaf e Karbala.[14]

La situazione è ulteriormente complicata da una rinnovata attività anche dal versante anti-Usa, condizione che ha seriamente rischiato di trascinare l’Iraq nel vivo della contesa fra Washington e Teheran. Sul finire del 2019 diverse basi irachene ospitanti le forze statunitensi sono divenute l’oggetto di attacchi perpetrati dalle milizie irachene appoggiate da Teheran. L’uccisione di un contractor americano il 27 dicembre, attribuita all’azione della milizia irachena Kata’ib Hezbollah (fortemente legata all’Iran) ha spinto gli Stati Uniti ad autorizzare un’operazione aerea di rappresaglia sul confine siriano, costata la vita a 24 miliziani.[15] Il 31 dicembre i reparti delle Kata’ib Hezbollah e alcune forze alleate hanno preso d’assalto l’ambasciata statunitense nella Green Zone di Baghdad, invadendo il perimetro esterno e assediando il compound fino al giorno seguente.[16] L’apice della tensione tra i due contendenti, però, è stata raggiunta con l’operazione di intelligence americana che ha portato all’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani e dell’ufficiale a capo delle Kata’ib Hezbollah, Abu Mahdi al-Muhandis, avvenuta nella notte del 3 gennaio nei pressi dell’aeroporto internazionale di Baghdad.[17] In quella che si può ritenere una mossa senza precedenti nel quadro delle storiche tensioni tra Washington e Teheran, l’azione presentata da Washington come “difensiva” ha fatto temere un’escalation su più ampia scala, con possibili conseguenze per l’intera regione. La risposta iraniana è avvenuta nella notte tra il 7 e l’8 gennaio, quando 22 missili balistici iraniani si sono abbattuti su due basi irachene dove alloggiavano soldati statunitensi, senza però causare alcuna vittima. L’attacco è stato interpretato come una misura calibrata di autodifesa, mirata a evitare il rischio di un conflitto e il protrarsi dell’escalation.[18]

Nonostante i successivi tentativi di smorzare la tensione da parte di entrambi i contendenti, sul piano militare l’attacco statunitense ha rafforzato le posizioni anti-americane in seno alla leadership irachena. L’operazione in territorio iracheno, infatti, è stata interpretata come una chiara violazione della sovranità del paese. Ciò ha spinto il parlamento iracheno, riunitosi il 5 gennaio, a votare la fine della collaborazione militare con gli Stati Uniti e il conseguente ritiro delle truppe statunitensi dall’Iraq. Anche se non vincolante, il voto è indice di una crescente insofferenza nel paese verso la presenza di truppe straniere, così come di una spaccatura sempre più profonda nella classe politica irachena.[19] Allo stesso tempo, l’escalation dell’ultimo mese ha inevitabilmente portato a un ricompattamento degli obiettivi del fronte sciita nei confronti della presenza militare degli Stati Uniti in Iraq, permettendo il rafforzamento delle narrative dei politici nazionalisti e pro-iraniani. Lo dimostra la manifestazione tenutasi a Baghdad venerdì 24 gennaio, quando il predicatore sciita Moqtada al Sadr ha portato in strada migliaia di persone per chiedere il ritiro delle forze statunitensi stanziate nel paese.[20]

Un’eventuale riduzione della presenza militare Usa in Iraq (un’opzione a oggi scartata dalla Casa Bianca che, al contrario, ha rafforzare la propria presenza nella regione) avrebbe l’inevitabile conseguenza di diminuire considerevolmente l’influenza di Washington verso Baghdad, permettendo di cementare la presenza iraniana nel paese. Allo stesso tempo, la riduzione delle attività di anti-terrorismo da parte della coalizione potrebbe interrompere il cruciale supporto occidentale nella lotta contro lo Stato Islamico, così come aprire la strada a una eventuale riorganizzazione delle forze dell’ex Califfato.

 

[1] “Two Killed in Anti-Government Protests in Iraq”, The New York Times, 1 ottobre 2019.

[2]Iraq, Country report, Economist Intelligence Unit, 8 gennaio 2020.

[3] M. Fantappie, Widespread Protests Point to Iraq’s Cycle of Social Crisis, International Crisis Group, 10 ottobre 2019.

[4]Heavily censored internet briefly returns to Iraq 28 hours after nationwide blackout, NETBLOCKS Mapping Net Freedom, 3 ottobre 2019.

[5] “‘This is my sacrifice’: Thousands maimed in Iraq demonstrations”, ArabNews, 21 novembre 2019.

[6] “Iraqis have been holding peaceful mass protests us strike its aftermath are undermining that”, The Washington Post, 20 gennaio 2020.

[7] M. Chulov, “Iraqi PM says he will resign after weeks of violent protests”, The Guardian, 29 novembre 2019.

[8] “Mohammed Tawfik Allawi named as new prime minister of Iraq”, Middle East Eye, 1 febbraio 2020.

[9] L. Alsaafin, “Mohammed Allawi appointed new Iraq PM, protesters reject him”, AlJazeera, 1 febbraio 2020.

[10] C. Lovotti, “Iraq: la difficile formazione del governo tra vecchi e nuovi problemi”, in V. Talbot (a cura di) Focus Mediterraneo allargato numero 9, ISPI per l’Osservatorio di Politica Internazionale del Parlamento italiano, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, marzo 2019.

[11] A.J. Rubin, “Iraq Names New Prime Minister Who Praises ‘Bravery’ of Protesters”, The New York Times,  1 febbraio 2020.

[12] International Monetary Fund, (Imf), Imf DataMapper, ottobre 2019, https://www.imf.org/external/datamapper/NGDP_RPCH@WEO/IRQ?year=2020

[13] J. Lee, “Iraq seeks bids for Iraq-Jordan Oil Pipeline”, Iraq Business News, 3 gennaio 2020.

[14] “Iraq unrest: Protesters set fire to Iranian consulate in Najaf”, BBC News, 28 novembre 209.

[15] A.J. Rubin e B. Hubbard, “American Airstrikes Rally Iraqis Against U.S.”, The New York Times, 30 dicembre 2019.

[16] “Iraqi supporters of Iran-backed militia attack U.S. embassy”, Politico, 31 dicembre 2019.

[17] C. Lovotti, USA-Iran: l’Iraq non può (più) essere un terreno di scontro, Commentary ISPI, 10 gennaio 2020.

[18] A. Perteghella, USA-Iran: le conseguenze della morte di Soleimani, Commentary ISPI, 8 gennaio 2020.

[19] E. Levenson, F. Pleitgen, S. Elwazer e A. Vera, “Iraqi Parliament votes for plan to end US troop presence in Iraq after Soleimani killing”, CNN, 5 gennaio 2020.

[20] “Iraqi cleric’s supporters take to streets to call for removal of US troops”, The Guardian, 24 gennaio 2020.

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AUTORI

Francesco Salesio Schiavi
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