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Focus Mediterraneo Allargato n.9
Iraq: la difficile formazione del governo tra vecchi e nuovi problemi
Chiara Lovotti
01 marzo 2019

Le elezioni nazionali del 12 maggio 2018, le prime dopo la sconfitta dello Stato islamico (IS), hanno segnato un momento di grande importanza per l’Iraq, una sorta di spartiacque che ha chiuso una delle fasi più nere della storia del paese e ne ha aperta una nuova, segnata dalla voglia di riscatto e dal desiderio di ripartire. Nove mesi dopo le elezioni, il paese comincia a muovere i primi, piccoli passi. Cenni di ripresa economica, nuovi accordi commerciali, progetti di ricostruzione delle aree distrutte, ritorno degli sfollati nelle aree liberate, segnali incoraggianti sulla via della riconciliazione interna; sono tutte avvisaglie di un paese che sta provando a rialzarsi. La situazione complessiva, però, rimane grave e parlare di stabilità sembra ancora un azzardo. La nuova leadership al governo, guidata dal premier Adel Abdul-Mahdi, ha imbracciato il timone di un paese caratterizzato da istituzioni deboli, scarso stato di diritto, un’economia in ginocchio, corruzione e divisioni etno-settarie. In questa situazione precaria, l’Iraq è ancora alla ricerca di un equilibrio politico, economico e securitario, condizione fondamentale per ricostruire il paese e vincere la sfida della pace.

Quadro interno

Dall’appuntamento elettorale del maggio 2018, di per sé una vittoria in un paese appena uscito dalla guerra, non era emersa una maggioranza politica che potesse prendere le redini dell’Iraq. I due blocchi principali, entrambi di estrazione sciita, che insieme raggiungevano la maggioranza in parlamento – da una parte il blocco Islah, capitanato da Moqtada al-Sadr, il clerico sciita leader della coalizione al-Sairoon, insieme al primo ministro uscente Haider al-Abadi, e dall’altra il blocco al-Binaa, capitanato da Hadi al-Ameri, il leader della coalizione al-Fatah, braccio politico delle milizie paramilitari legate all’Iran, insieme all’ex primo ministro Nouri al-Maliki – hanno entrambi avanzato il diritto di guidare il processo di formazione del nuovo governo. Tuttavia, di fronte all’impossibilità di ciascun gruppo di raggiungere la maggioranza in parlamento, e spinti dall’aumentare delle proteste nel sud del paese, a Bassora, dove i manifestanti chiedevano risposte concrete alla politica, i due blocchi – insieme alle altre forze politiche – hanno dovuto accelerare la ricerca di un compromesso.

Dopo mesi di stallo, il 2 ottobre 2018 il parlamento ha eletto alla presidenza della Repubblica irachena Barham Salih, politico di origine curda1, già noto per avere ricoperto varie cariche, prima come vice primo ministro del governo federale dal 2006 al 2009 e poi come primo ministro del Governo regionale curdo (Kurdistan Regional Government, Krg) dal 2009 al 2012, e infine come segretario della Coalizione per la giustizia e la democrazia, da lui appositamente creata per concorrere alle elezioni regionali curde del 30 settembre 2018, staccandosi così dall’Unione patriottica del Kurdistan (Patriotic Union of Kurdistan, Puk) di cui faceva parte. Sotto molti aspetti, la nomina di Salih sembra destinata ad apportare un cambiamento e dare una sferzata alla presidenza, finora di fatto ridotta a un ruolo di mera rappresentanza. Soprattutto in materia di politica estera, Salih si sta proponendo come un leader attivo e capace. Le varie visite istituzionali che ha compiuto in questi primi mesi del suo mandato, da quelle nei paesi nella regione fino alla sua prima visita in Europa – e finora l’unica – che lo ha portato a Roma nell’ambito della conferenza “Rome Med Mediterranean Dialogues”2, stanno contribuendo a riscattare l’immagine dell’Iraq a livello internazionale.

Il giorno stesso in cui è stato eletto, il neo-presidente Salih ha designato Adel Abdul-Mahdi come primo ministro e affidato a lui il compito di formare il nuovo governo entro la scadenza di 30 giorni. La nomina di Abdul-Mahdi, un economista di formazione, già vice presidente della repubblica, ministro delle Finanze nel 2004 e poi ministro dell’Energia per il governo di al-Abadi, oltre che ex membro del Supremo consiglio islamico iracheno (Islamic Supreme Council of Iraq, Isci), partito islamista sciita, è stata particolarmente sponsorizzata proprio dai leader dei due blocchi sciiti che si contendono la maggioranza, al-Sadr e al-Ameri. Tuttavia, Abdul-Mahdi si trova in una posizione di debolezza. La difficoltà con cui si è arrivati alla sua elezione, di fatto un compromesso fra le forze politiche principali, testimonia la mancanza di una coalizione solida che lo sostenga, evidente nei problemi che egli stesso ha riscontrato nella formazione dell’esecutivo e che hanno messo in luce la sua incapacità di esercitare influenza sugli stessi partiti che lo hanno portato al potere.3 In effetti, sebbene al-Sadr e al-Ameri avessero formalmente dato pieno potere al primo ministro di nominare la propria squadra di governo, essi sono di fatto rimasti i principali mazzieri della partita per la composizione della stessa e hanno molto limitato le libertà e l’azione di Abdul-Mahdi, incapace di sovrastare la competizione fra i due.4 Inoltre, il fatto stesso di essere stato eletto in seguito a un compromesso politico e di non godere invece di un mandato popolare, contribuisce a rendere la figura di Abdul-Mahdi più debole agli occhi della popolazione irachena.

A ogni modo, il 25 ottobre il parlamento ha finalmente approvato l’insediamento del nuovo governo iracheno, benché siano state accettate solamente 14 delle 22 nomine ministeriali proposte da Abdul-Mahdi. Tuttora rimangono vacanti alcuni ministeri chiave, fra cui quelli dell’Interno e della Difesa, per le nomine dei quali si stanno ancora scontrando i due partiti di maggioranza. Nonostante le difficoltà incontrate nel completare la squadra ministeriale, il primo ministro sembra avere formulato un’agenda di governo ambiziosa per intervenire su quelle che sono le maggiori sfide dell’Iraq post-Stato islamico.5

In primo luogo spicca l’economia fra le questioni più gravose e urgenti nell’agenda di governo.6 L’esecutivo di Abdul-Mahdi ha presentato un piano finanziario e di sviluppo ambizioso, articolato in 15 punti, che dovrebbe stimolare gli investimenti stranieri, sviluppare l’economia di mercato e l’industria petrolifera, potenziare i servizi di base, potenziare il settore del turismo, raggiungere l’autosufficienza nei settori agricoli e dell’allevamento, e rafforzare la collaborazione fra il settore pubblico e quello privato. Anche a fronte della frammentazione interna all’esecutivo, l’approvazione del budget annuale è stata difficoltosa e ha causato uno stallo in parlamento di diverse settimane. In primo luogo, secondo molti la bozza di budget mancava di includere molte delle necessità sopra citate, fra cui i problemi legati all’elettricità, all’agricoltura e ad altri settori economici fondamentali.7 Le maggiori resistenze al budget, però, sono state mosse dagli esponenti della comunità arabo-sunnita, che hanno denunciato la disparità nell’allocazione di fondi fra le province a maggioranza sunnita rispetto a quelle a maggioranza sciita. Superato lo stallo, il budget è stato approvato il 24 gennaio e stimato 112 miliardi di dollari, una delle cifre più alte mai proposte da Baghdad.

Inoltre, una delle questioni che maggiormente grava sulla ripresa economica dell’Iraq è quella della ricostruzione delle aree distrutte dalla guerra contro lo Stato islamico. Il budget che era stato stimato in seno alla Conferenza in Kuwait del febbraio 2018 ammontava a 88,2 miliardi di dollari americani, una cifra sicuramente ambiziosa rispetto alle reali capacità irachene e alla riluttanza dei donor internazionali a investire in un paese ancora politicamente fragile. Benché i vicini regionali dell’Iraq sembrino mostrare interesse verso la ricostruzione (l’Arabia Saudita ha promesso complessivamente 1 miliardo e mezzo di dollari Usa, il Kuwait 2 miliardi, il Qatar 1 miliardo, gli Emirati Arabi Uniti 6 miliardi, la Turchia 5 miliardi), infatti, un anno dopo la conferenza, le promesse di fondi internazionali rimangono ancora disattese. Una situazione, questa, probabilmente favorita dalla fase di incertezza politica che si è protratta in questi mesi e dal fatto che il governo non abbia fornito una strategia chiara in tema di ricostruzione delle aree distrutte.

In secondo luogo, la sicurezza rimarrà a lungo una delle principali sfide del nuovo esecutivo. Sul piano della governance locale, molte aree dell’Iraq restano ancora ampiamente sprovviste dei servizi di base. Priorità del governo sarà quella di lavorare verso una sempre maggiore decentralizzazione, potenziando le istituzioni locali, ancora estremamente deboli, anche attraverso un rafforzamento del dialogo fra Baghdad e le amministrazioni decentrate. Sul piano prettamente securitario, una delle questioni più urgenti è quella del reintegro di attori non-statuali, che da tempo ormai si gestiscono in maniera autonoma, nelle strutture statali (una questione, peraltro, cruciale anche in altri paesi, primi fra tutti la Siria, la Libia e lo Yemen).8 La complessità della questione in Iraq è data dalla presenza di una pletora di attori paramilitari che negli ultimi anni si sono spartiti la gestione securitaria in aree diverse del paese, ricevendo appoggio da attori diversi della politica irachena e da “supporter” internazionali diversi, cosa che rende impossibile una risposta unitaria. Smobilitazione, disarmo, reintegro, sono tutte opzioni che il nuovo governo dovrà passare al vaglio, nell’ambito di una più generale riforma del settore di sicurezza.9 Pur evitando la formazione di realtà autonome ed enclave paragonabili a sub-stati all’interno dell’Iraq, inevitabilmente tale riforma dovrà prevedere una nuova architettura di sicurezza “ibrida” fra attori statali e non-statali.

Infine, alla ripresa economica e alla sicurezza fa da sfondo il tema della riconciliazione, forse la sfida di lungo termine più importante che questo governo si trova ad affrontare (e sulla via della quale si riscontrano alcuni, piccoli, segnali incoraggianti). Sull’asse curdo-iracheno, la decisione di Baghdad di destinare una parte del budget annuale al pagamento dei salari ai peshmerga, le truppe della regione semi-autonoma del Kurdistan, benché queste non rientrino direttamente sotto la propria giurisdizione, è stata accolta con grande favore da Erbil. Inoltre, su 3,88 milioni di barili di petrolio al giorno destinati all’export, 250.000 verranno prelevati da Kirkuk10, regione a maggioranza curda divenuta epicentro delle tensioni etniche lo scorso anno, dove l’attività di estrazione di petrolio era bloccata da oltre un anno. Più complessa sembra invece la riconciliazione che ancora fatica a delinearsi fra le molteplici comunità che abitano le aree liberate da IS (non solo dunque la comunità arabo-sciita e quella arabo-sunnita, ma anche le varie minoranze etniche e religiose che abitano soprattutto il nord del paese). Un ritorno alla coesistenza pacifica in queste aree è condizione necessaria per porre le basi della stabilità e lavorare sulle cause profonde che hanno favorito l’ascesa dello Stato islamico. Benché rappresenti solo una piccola goccia nel mare, una notizia incoraggiante sembra arrivare dall’iniziativa recentemente lanciata dal clero sciita di Najaf, città santa irachena, con l’obiettivo di favorire il dialogo intercomunitario. L’iniziativa, denominata “dialogo per la coesione sociale”, è indirizzata in particolare ai governatorati settentrionali e occidentali dell’Iraq recentemente liberati da IS, e si propone di radunare autorità religiose, esponenti delle municipalità, della società civile e del mondo accademico, per promuovere l’uguaglianza fra tutti i cittadini iracheni e i valori della tolleranza e della coesistenza.11 Questo governo, il quinto democratico dalla caduta del regime di Saddam Hussein, rispetto ai precedenti è forse meglio posizionato per poter segnare la fine di una politica divisa su base settaria. Molto dipenderà dalle capacità della nuova leadership al governo di definire una strategia, ma anche dalla volontà delle coalizioni che la sostengono. Una visione più chiara e definita di quello che è l’interesse nazionale iracheno, un concetto su cui è mancata una vera e propria riflessione nell’Iraq post-2003, è però necessaria a superare le logiche divisive e costruire il futuro dell’Iraq unito.12

Relazioni esterne

Benché la nuova leadership al governo sembri generalmente intenzionata ad assicurarsi delle buone relazioni con tutti i propri vicini, vi sono delle differenze sostanziali nei rapporti bilaterali.

Negli ultimi mesi Baghdad ha rafforzato la cooperazione con l’Arabia Saudita, non solo in ambito di ricostruzione post-conflitto ma anche in ambito securitario; in un incontro a Riyadh a fine ottobre fra il presidente del parlamento iracheno Mohammed al-Halbousi e il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, i due leader si sono trovati d’accordo nel proseguire e anzi irrobustire la collaborazione in ambito economico e securitario, e hanno annunciato l’imminente riapertura del confine comune all’altezza del passaggio di Arar. Anche con il Kuwait, il paese che un anno fa ha ospitato la conferenza internazionale per la ricostruzione irachena, l’Iraq è intenzionato a rafforzare la collaborazione in ambito di sicurezza, parallelamente a quella economica, con una attenzione particolare alle zone di confine, aree sensibili che restano ancora soggette a infiltrazioni jihadiste.

Sembrano più tese, invece, le relazioni turco-irachene. La Turchia continua a mantenere attiva una base militare nel nord dell’Iraq, a Bashiqa; una presenza non troppo gradita alla coalizione di governo, e in particolare a Moqtada al-Sadr, politico notoriamente ostile a qualsiasi ingerenza esterna. Ma soprattutto continuano a preoccupare le relazioni fra Ankara ed Erbil, capoluogo della regione semi-autonoma del Kurdistan iracheno. Se, da una parte, la riapertura della tratta aerea Ankara-Sulaymaniyya, che i turchi avevano chiuso in risposta al referendum sull’indipendenza tenuto dai curdi (25 settembre 2017) – risolto in un nulla di fatto – aveva fatto ben sperare, dall’altra alcuni avvenimenti recenti gettano “nuove” ombre sulle relazioni fra Turchia e Kurdistan iracheno. In particolare, alcuni manifestanti hanno attaccato la base militare turca di Shiladze, nella provincia curdo-irachena di Dohuk, in risposta ai frequenti raid di Ankara contro le basi del Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan considerato dai turchi un’organizzazione terroristica. La dura risposta delle truppe turche alle rivolte ha provocato la morte di un manifestante e ne ha feriti diversi, portando a un attrito fra Ankara e il governo iracheno; Mohammed Ali Alhakim, ministro degli Esteri del governo Abdul-Mahdi, ha criticato quanto successo e convocato l’ambasciatore turco a Baghdad. Malgrado gli attriti sull’asse turco-curdo, però, Baghdad sembra intenzionata a continuare la collaborazione strategica con la Turchia, che peraltro resta uno dei principali donor della ricostruzione.

Per quanto riguarda le relazioni con l’Iran, l’alleato regionale principale dell’Iraq, Baghdad sembra trovarsi invischiata in un delicato gioco di equilibri internazionali, che ha origine nell’annuncio della Casa Bianca circa il ritiro delle truppe americane dalla Siria (19 dicembre 2018). Nel timore dell’amministrazione statunitense, la decisione di sgomberare il campo siriano potrebbe offrire uno scenario ricco di nuove opportunità proprio all’Iran; godendo del solido legame con l’Iraq, Teheran sarebbe potenzialmente in grado di creare un arco di influenza che passando per Baghdad si estenderebbe fino a Damasco. Non a caso, poche settimane dopo l’annuncio sulla Siria, per la prima volta dal suo insediamento alla Casa Bianca, il presidente americano Donald Trump si è recato proprio in Iraq per visitare il contingente statunitense presso la base aerea di Ayn al-Asad, nel governatorato di Anbar (26 dicembre 2018). Da allora, però, in cambio del proprio rinnovato impegno militare Washington ha cominciato a esercitare pressione su Baghdad perché smetta di importare gas dall’Iran e riduca la “dipendenza” dalla Repubblica islamica, vera e propria ossessione dell’attuale amministrazione statunitense, che punta ad isolare economicamente Teheran nel quadro più ampio delle rinnovate sanzioni. Anche il Segretario di Stato Mike Pompeo, che ha fatto eco alla visita di Trump recandosi a Baghdad il 9 gennaio 2019, alla presenza di Abdul-Mahdi e di altri leader iracheni ha sottolineato come, agli occhi degli Stati Uniti, l’Iran continui a rappresentare la più grande minaccia per la regione mediorientale. Il presidente iracheno Salih si è espresso duramente a proposito, avvertendo Washington di non far gravare sull’Iraq questioni che in questo momento non sono urgenti per il paese.13 Sebbene l’ingerenza statunitense abbia generato qualche attrito fra Baghdad e Washington, lo scambio di battute fra i due leader non sembra rischiare di compromettere le relazioni fra i due paesi, che continuano a riconoscere l’importanza strategica della loro alleanza e la necessità di rafforzare la collaborazione tanto in ambito securitario e di lotta la terrorismo quanto in materia di ricostruzione.

Accanto agli Stati Uniti, poi, gli altri due attori internazionali che sempre di più si addentrano nelle questioni mediorientali si stanno muovendo anche nel contesto iracheno. Da una parte, la Russia sta accrescendo la sua presenza in Iraq attraverso una serie di accordi energetici che le due principali compagnie di stato, Rosneft e Gazprom, stanno siglando, puntando a diversificare le relazioni fra Iraq e regione curda. Sembra inoltre attesa una visita di Salih a Mosca nella prima metà del 2019, su invito del presidente russo Vladimir Putin, che rappresenterebbe la seconda visita internazionale – al di fuori della regione mediorientale – compiuta dal presidente iracheno dopo quella di Roma del novembre 2019. Dall’altra parte, anche la Cina sembra intenzionata a diversificare le relazioni commerciali con Baghdad. Oltre alle relazioni energetiche che vedono nell’Iraq un partner fondamentale per la Cina, Pechino ha siglato alcuni piccoli accordi di diversa natura, soprattutto in materia di tecnologie per l’agricoltura e di ricerca per la protezione del territorio.

1 Dalla caduta del regime di Saddam Hussein, una sorta di accordo non scritto regola la partizione delle cariche più alte della Repubblica irachena. La presidenza, una carica pressoché unicamente di rappresentanza, spetta a un membro della comunità curda; la carica di primo ministro a un membro della comunità arabo-sciita, e la carica di speaker del parlamento iracheno a un membro della comunità arabo-sunnita. 

2 La conferenza internazionale “Rome Med – Mediterranean Dialogues” da quattro anni rappresenta uno degli appuntamenti di maggiore rilievo della politica estera italiana. Si veda il sito per maggiori informazioni https://med.ispionline.it

3 K.H. Sowell, “A Fractured Iraqi Cabinet”, Carnegie Endowment for International Peace, 8 novembre 2018; K.H. Sowell, “Partisan bickering over Iraq’s cabinet”, Carnegie Endowment for International Peace, 7 febbraio 2019.

4 R. Mansour, “Stalled government formation shows that parties still outweigh a weak PM in Iraq”, World Politics Review, 6 dicembre 2018.

5A. Kadhim, Nearly One Hundred Days In, How is Iraq’s New Government Performing?, The Atlantic Council, 30 gennaio 2019.

6 A. al-Hajj, For the Iraqi Prime Minister, a Slew of Economic Challenges, The Washington Institute, 10 novembre 2018.

7 S. Zidane, “Can new PM make Iraq’s grand plans a reality?”, Al-Monitor, 12 novembre 2018.

8 R. Alaaldin, “Containment and engagement: the rise of armed non-state actors”, New security arrangement for the MENA region, Task Force, Al Sharq Forum, ottobre 2018.

9 F. Wehrey, “Armies, Militias and (re)-integration in fractured states”, Carnegie Endowment for International Peace, 30 ottobre 2018.

10 A. Rasheed, “Iraq parliament approves budget ending weeks of deadlock”, Reuters, 24 gennaio 2019.

11 A. Mamouri, “Najaf Shiites launch solidarity initiative with Sunni areas”, Al-Monitor, 20 gennaio 2019.

12 R. Alaaldin, “Sectarianism, Governance, and Iraq’s Future”, Brookings Doha Center Analysis Paper, n. 24, novembre 2018.

13 “Barham Salih: Trump did not ask Iraq’s permission to ‘watch Iran’”, Al Jazeera, 4 febbraio 2019.

 

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ISPI Research Fellow and Scientific Coordinator of Rome Med Dialogues
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AUTORI

Chiara Lovotti
ISPI Associate Research Fellow

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