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Allerta terrorismo

Iraq: l’attentato dello Stato Islamico ai militari italiani

Federico Borsari
|
Chiara Lovotti
|
Francesco Salesio Schiavi
11 novembre 2019

Nella tarda mattinata del 10 novembre, nei pressi di Kifri, al confine tra il Kurdistan iracheno e i territori controllati dal governo di Baghdad, un ordigno rudimentale è esploso al passaggio di un convoglio misto di forze speciali italiane e irachene, causando 5 feriti tra gli italiani, di cui 3 gravi ma nessuno in pericolo di vita. Nel pomeriggio di lunedì 11 novembre è arrivata la rivendicazione dello Stato Islamico, che - come si legge in un comunicato dell’agenzia di propaganda Amaq - voleva colpire “la coalizione di forze crociate”. I militari feriti sono stati immediatamente evacuati e trasportati in elicottero all’ospedale americano di Baghdad. L’attentato si inserisce nel quadro, quello iracheno, di una rinnovata instabilità. Attacchi di questo tipo, frequenti negli ultimi mesi soprattutto in quella zona, unitamente alle proteste che stanno scuotendo la zona centro-meridionale, testimoniano di un paese ancora fragile. 

 

Cosa è successo?

Un ordigno esplosivo improvvisato (Improvised Explosive Device, IED) è detonato verso le 11 del mattino di domenica 10 novembre, ora locale, colpendo un furgone blindato utilizzato dalle Forze armate italiane, di stanza nella zona con compiti di addestramento e supporto logistico alle truppe curde dei Peshmerga. L’indomani l’attentato è stato ufficialmente rivendicato dallo Stato Islamico, confermandone la natura terroristica. Il luogo dell'attentato coincide con uno dei territori delle famose “zone contese” tra il governo centrale e l’amministrazione regionale curda. In queste aree, il cui statuto giuridico rimane indefinito e sospeso dal 2005, ossia da quando venne stilata la prima Costituzione irachena nell’era post-Saddam Hussein, la gestione della sicurezza è complessa e, spesso, inefficace. I rapporti tra Baghdad ed Erbil, capoluogo della regione curda, rimangono tesi, soprattutto dopo il referendum per l’indipendenza curda tenutosi nel settembre 2017 e conclusosi in un nulla di fatto. La presenza di forze sul campo tanto numerose quanto variegate, poi, non fa che complicare la situazione (esercito iracheno, Peshmerga e unità di mobilitazione popolare). Le tensioni latenti e lo scarso coordinamento tra le forze in campo hanno reso questi territori un rifugio ideale per ciò che resta dello Stato Islamico (IS), lupi solitari e vari gruppi di miliziani, spesso fungendo da base per nascondere uomini e armi e lanciare attacchi di guerriglia a forze di sicurezza, esponenti politici e popolazione. In altre parole, l’attentato al convoglio italiano ci ricorda che il terrorismo si insinua laddove esistono divisioni e frammentazione, e che, anzi, proprio di queste si nutre. 
 

Presenza italiana in Iraq: cosa significa l’attentato per Roma? 

L’Iraq rappresenta da tempo un teatro importante per l’impegno militare italiano all’estero. Dal 2003 al 2006 le nostre forze armate hanno lavorato in Iraq nell’ambito dell’operazione “Antica Babilonia” che, in accordo con la Risoluzione 1483 delle Nazioni Unite, aveva l’obiettivo di promuovere la stabilità nel paese dopo l’intervento americano e la caduta del regime di Saddam Hussein (2003). Dal 2014, poi, l'Italia è presente con la missione "Prima Parthica", nata per affiancare la coalizione internazionale contro IS guidata dagli Stati Uniti. All'inizio della missione, il contingente comprendeva quasi 1.400 unità, ed è stato successivamente ridotto dopo la sconfitta territoriale di IS, nel marzo di quest’anno. Secondo gli ultimi dati forniti dal Ministero della Difesa, sono 868 gli effettivi delle forze armate italiane impegnati nella missione, di cui circa 500 in Iraq, con compiti di addestramento e supporto alle forze di sicurezza irachene e ai Peshmerga curdi. Sebbene le cifre rimangano incerte, circa 250 uomini (di cui 120 istruttori), operano presso il “Kurdistan Training Coordination Center” di Erbil, nell'area del kurdistan iracheno, addestrando i Peshmerga e formando gli ufficiali curdi che le comandano. Altri 140 uomini fanno parte della "Police Task Force Iraq" (di stanza a Baghdad ed Erbil), dedita ad addestrare le forze di sicurezza irachene e peshmerga (in particolare delle unità antiterrorismo e della polizia) e a contrastare il traffico di beni archeologici. Circa un centinaio di uomini dell’aeronautica sono poi inquadrati nel Task Group Griffon, incaricato di fornire supporto logistico e soccorso alle forze di terra, tramite elicotteri UH90 dislocati ad Erbil. Il restante numero degli effettivi opera nella base aerea di Alì al-Salem, in Kuwait, con compiti di ricognizione e rifornimento. Una missione consistente, dunque, che figura come la maggiore per numero di effettivi, subito dopo quella in Libano. 

A fronte di ciò, l’'attentato al convoglio italiano è sicuramente un segnale preoccupante, sintomo di un paese ancora altamente instabile. Come riportato anche dal Generale Marco Bartolini, già a capo della missione italiana in Afghanistan, nonostante l’elevato grado di preparazione dei nostri militari, la missione in Iraq non è certo esente da rischi. Tuttavia, si tratta di rischi che forse è necessario correre. Da una parte, spaziando dai lavori di manutenzione alla diga di Mosul di cui per anni si è fatta carico l'azienda italiana Trevi, agli investimenti di aziende come ENI, al lavoro di ricerca delle missioni archeologiche e culturali, l’Italia ha interessi molteplici e differenti in Iraq, che non può smettere di salvaguardare; poco dopo l'attentato, il ministro della Difesa Lorenzo Guerini ha infatti fatto sapere che la missione italiana continuerà. Dall’altra, l’impegno italiano si iscrive nel quadro di un più ampio impegno internazionale, quello della coalizione di paesi che dal 2014 si è fatta carico della lotta a IS e al terrorismo di matrice; un impegno che vede l’Italia giocare un ruolo di primo piano, che difficilmente verrà compromesso da quanto accaduto ieri. 
 

Ancora allarme terrorismo in Iraq?

L’attentato di ieri getta un’ulteriore ombra sull’Iraq. Attacchi di questo tipo, ottenuti tramite l’impiego di autobombe o di ordigni improvvisati come per quello rivendicato da Is, testimoniano che l’Iraq non è ancora al sicuro dalla minaccia del terrorismo. Seppure l’organizzazione dello Stato Islamico sia agonizzante e abbia visto infranto il suo progetto statuale, soggetti affiliati a IS o ad altre organizzazioni si dimostrano ancora capaci di compiere atti di guerriglia come quello avvenuto ieri. Se, per ovvie ragioni, l’attentato di ieri ha avuto un forte impatto mediatico nel nostro paese, occorre ricordare che negli ultimi mesi e ancor più nelle ultime settimane si sono registrati frequenti attentati nella zona, diretti tanto a obiettivi mirati (spesso vertici della politica irachena locale) quanto a obiettivi non mirati (come sembrerebbe classificarsi l’attacco di ieri). Nel suo comunicato ufficiale, il sedicente Stato Islamico riferisce di aver colpito forze della “coalizione crociata,” lasciando intendere che l’attentato di domenica non fosse espressamente diretto alle forze italiane in Iraq, quanto piuttosto alla presenza occidentale nel paese, rappresentata dalla Coalizione internazionale a guida statunitense. 

Con la conferma della radice terrorista, questo attentato ci rammenta che l’allerta nel paese circa tale minaccia è ancora alta. In particolare, l’attentato segue il modus operandi già utilizzato dallo Stato Islamico e questo conferma che la sua sconfitta territoriale, così come la morte del suo ultimo leader, il sedicente califfo Abu Bakr al-Baghdadi, non possono tradursi nella fine del terrorismo. L'attentato di ieri,  così come l’ondata di proteste che da settimane attraversa tutto l’Iraq centro-meridionale (sebbene i due avvenimenti non siano collegati) mantengono il paese in uno stato di profonda instabilità. La conferma della matrice terroristica, legata allo Stato Islamico, trasmette un chiaro messaggio, una sorta di testimonianza di “sopravvivenza” da parte dei miliziani di IS: a una decina di giorni dalla nomina del nuovo “Califfo”, Abu Ibrahim al-Qurashi, l’organizzazione vuole ricordare al mondo che è ancora capace di agire. Allo stesso tempo, manda un forte segnale alla varia compagine del sunnismo radicale e ai supporters dello Stato Islamico che, in una organizzazione così resiliente e capace di reinventarsi, potrebbero vedere una garanzia di continuità a cui legarsi, in un periodo di fluidità e incertezza per il futuro del jihadismo internazionale. 

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MENA Iraq Italia terrorismo
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AUTORI

Federico Borsari
ISPI Research Assistant
Chiara Lovotti
ISPI Associate Research Fellow
Francesco Salesio Schiavi
ISPI Research Trainee

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