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Commentary

Iraq, minaccia alla sicurezza energetica globale

Andrea Plebani
24 luglio 2014

La caduta di Mosul e l’instaurazione dello Stato Islamico guidato da Abu Bakr al-Baghdadi hanno riportato alla luce il dibattito sulla possibile tripartizione dell’Iraq (“soft” o “hard”, a seconda che si preservi o meno l’impostazione federale del sistema iracheno). Questi aveva vissuto il suo momento di gloria pochi anni dopo la caduta del regime ba’thista, grazie al contributo di esponenti di primo piano dell’amministrazione statunitense (come l’attuale vicepresidente Joe Biden, autore – assieme a Leslie Gelb - di un discusso op-ed pubblicato nel 2006 dal New York Times) e di alcuni funzionari iracheni di alto livello (su tutti Muwaffaq al-Rubaye, ex direttore del Consiglio Nazionale di Sicurezza). A poche settimane dalla caduta della seconda metropoli irachena, infatti, a preoccupare non sono solamente i molti territori dell’heartland arabo-sunnita reclamati dal sedicente califfo, ma anche quelle “aree contese” recentemente occupate dalla guardia regionale del Kurdistan (i vecchi peshmerga), che per anni sono state alla base di una interminabile controversia tra il governo federale di Baghdad (Goi) a quello regionale di Erbil (Krg) [1].

Epicentro di tale disputa è da sempre Kirkuk, la “Gerusalemme irachena”: una città multietnica dal passato millenario, oggetto delle politiche di ridefinizione demografica ai tempi di Saddam e ora rivendicata da curdi (che la considerano la capitale culturale del Kurdistan meridionale), turcomanni e arabi, oltre che –ovviamente – da Baghdad e dalle molteplici minoranze che la abitano da generazioni. La rilevanza di Kirkuk è legata alla propria posizione geopolitica (snodo cruciale tra Baghdad, Mosul, Erbil e Sulaimaniya, e a livello regionale tra la “terra dei due fiumi” e i sistemi siriano, turco e iranico), ma anche – e soprattutto – alla propria ricchezza. La città, infatti, oltre a rappresentare un naturale crocevia commerciale, è adagiata al centro di un sistema di bacini petroliferi secondi per importanza solamente a quelli di Bassora e delle province irachene meridionali [2]. La costituzione irachena approvata nel 2005 prevedeva che il fato dei territori contesi fosse deciso da un referendum che si sarebbe dovuto tenere nel 2007. Nonostante l’insistenza del Krg e le promesse di Baghdad (non ultime quelle fatte in occasione dell’accordo di Erbil alla fine del 2010) tali consultazioni sono divenute sempre più un miraggio, i cui contorni si sono fatti sempre più labili mano a mano che il primo ministro Nuri al-Maliki estendeva la propria influenza sul sistema-paese.

Con la rovinosa ritirata dell’esercito iracheno e l’avanzata dell’insurrezione guidata dalle forze dello Stato Islamico, le unità curde si sono mosse per mettere in sicurezza Kirkuk e molte delle aree contese, che dalla provincia di Niniveh nel nord-ovest del paese si dipanano lungo una striscia di territori che giungono sino alla provincia orientale di Diyala, al confine con l’Iran. Queste misure – inizialmente non osteggiate da Baghdad a causa anche della difficilissima congiuntura che il paese si trovava ad affrontare – hanno però contribuito in misura esponenziale all’escalation della crisi tra Goi e Krg [3]. Da una parte l’attuale premier iracheno ha accusato i curdi di aver sfruttato gli eventi di giugno per impossessarsi unilateralmente delle aree contese (e quindi in violazione degli accordi esistenti), oltre che di non aver risposto con la necessaria fermezza, se non di aver addirittura sostenuto, l’ascesa dell’Isis/Is nel quadrante nord-occidentale. Dall’altra, il presidente del Krg, Massoud Barzani, ha rispedito le accuse al mittente, sottolineando come la crisi in corso fosse dovuta non tanto alle capacità degli insorti ma alle sconsiderate politiche adottate dall’amministrazione al-Maliki. Ne è seguito uno scontro che ha spinto Barzani a minacciare, in caso di rielezione del premier, l’indizione di un referendum non limitato al solo accorpamento al Krg delle aree contese occupate, ma all’indipendenza di quest’ultimo nel caso in cui il premier sciita fosse stato riconfermato alla guida del paese [4].

Tali dinamiche non possono che influire negativamente sullo scenario energetico del paese, già duramente segnato dall’escalation di violenza registrata a partire dalla seconda metà del 2012 [5]. L’occupazione di alcuni giacimenti e della raffineria di Baiji da parte degli insorti ha infatti avuto serie ripercussioni sulla capacità di raffinazione irachena (in particolare nel nord, dato che l’impianto soddisfaceva circa il 40% del fabbisogno di carburante del Krg), ma non ha influito in misura determinante sulle capacità estrattive dell’Iraq. Nonostante gli ultimi mesi abbiano visto una contrazione significativa delle attività attorno a Kirkuk, i giacimenti del sud (di gran lunga i più importanti per il paese [6]) non hanno subito particolari contraccolpi.

I rischi maggiori all’industria petrolifera irachena sembrano quindi collocarsi più in un orizzonte di medio periodo che nell’immediato. Se ad ora, infatti, la gran parte degli asset rimangono saldamente nelle mani del governo centrale e del Krg, in futuro tale situazione potrebbe cambiare significativamente, dato che le forze di al-Baghdadi hanno ampiamente dimostrato di poter operare al di fuori dei “confini” del Califfato e di essere in grado di raggiungere senza particolari problemi obiettivi posti nelle province meridionali. Questa insicurezza potrebbe avere effetti devastanti in futuro, soprattutto qualora Baghdad ed Erbil non riuscissero a risolvere le loro controversie e a debellare la minaccia islamista che – val la pena ricordare – è riuscita a contendere alle autorità il controllo di oltre un terzo del paese. Dal punto di vista economico, questo scenario potrebbe tradursi in una contrazione degli investimenti esteri, fondamentali per rispettare le proiezioni di crescita del settore degli idrocarburi (8,4 milioni di barili al giorno da raggiungersi entro la fine del decennio) e, di conseguenza, per l’economia del paese [7].

Tali dinamiche potrebbero avere effetti significativi non solo sul paese, ma anche a livello internazionale. L’Iraq, con i suoi circa 3 milioni barili di petrolio estratti al giorno, è il secondo maggior paese produttore dell’Opec, alla cui crescita la “terra dei due fiumi” dovrebbe contribuire per oltre il 60% nei prossimi sei anni [8]. Sono questi timori quindi, più che una significativa diminuzione dell’output petrolifero, ad aver causato l’aumento del prezzo del petrolio registrato nei giorni seguenti la caduta di Mosul. E, qualora l’avanzata di al-Baghdadi non dovesse essere arrestata, la situazione non potrebbe che peggiorare.

Ancora una volta l’Iraq è tornato a essere uno dei motori immobili delle dinamiche mediorientali. Che piaccia o meno, e a dispetto dell’interesse altalenante dimostrato dei media, questa è una costante con la quale l’intera comunità internazionale dovrà fare i conti. Possibilmente prima che sia troppo tardi. 

 


[1] Si veda Sean Kane, Iraq's Disputed Territories, USIP Peaceworks, n. 609, marzo 2011.

[2] Si stima che i bacini petroliferi dell’area custodiscano circa dieci miliardi di barili di petrolio. Mees, Point of no return as Kirkuk oil flows to Kurdistan, Weekly Energy Economic & Geopolitical Outlook, vol. 57, n. 29, 18 luglio 2014.

[3] Crisi, peraltro, tutt’altro che improvvisa, dato che da anni Baghdad ed Erbil si scontravano per questioni di budget e, soprattutto, in relazione alla liceità o meno del Krg di esportare autonomamente il greggio estratto all’interno dei propri confini via Turchia.

[4] È di queste ultime settimane la notizia che Barzani avrebbe chiesto al parlamento regionale di avviare i preparativi per l’indizione di un referendum, sebbene non sia ancora chiaro se questi avrà come oggetto l’indipendenza o la sovranità sulle aree contese occupate nel quadro del sistema federale iracheno. A pesare sulla scelta contribuiranno anche le posizioni dei principali attori regionali (Turchia e Iran) ed extra regionali (Stati Uniti in primis), oltre che quelle delle diverse forze politiche curde, da sempre animate da interessi e agende fortemente confliggenti. Si vedano Kamal Chomani, Push for Kurdish independence divides Iraqi Kurds, al-Monitor, 9 luglio 2014.

[5] Andrea Plebani, al-Qaeda in Iraq: back again?, ISPI commentary, 30 luglio 2013.

[6] Per maggiori informazioni si veda U.S. Energy Information Administration, Iraq – Country report, 2 aprile 2014.

[7] Mees, Krg to hold independence referendum, Weekly Energy Economic & Geopolitical Outlook, vol. 57, n. 24, 4 luglio 2014.

[8] Anjli Raval, IEA warns on Opec oil production risks, Financial Times, 17 giugno 2014 e Economist Intelligence Unit, Iraq – Country report, luglio 2014.


Andrea Plebani, Research Fellow ISPI e docente a contratto presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore

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Andrea Plebani
Associate Research Fellow

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