In conformità con l’andamento dei mesi precedenti, l’Iraq di Adel Abdul-Mahdi e di Barhim Salih sembra mostrare i tanto auspicati segni di ripresa, in ambito economico, per il processo di ricostruzione delle aree distrutte, il ritorno degli sfollati nelle aree liberate e nel rinnovato e bilanciato attivismo in politica estera. Ciò nonostante, questi progressi sono ancora lungi da assicurare al paese quella stabilità e quella continuità necessarie a favorirne il rafforzamento istituzionale e la riconciliazione socio-politica della popolazione irachena. Il mancato raggiungimento di questo obiettivo non è da attribuire unicamente alle dinamiche interne dell’Iraq, quanto anche a quelle regionali. Segnati dal progressivo inasprimento delle relazioni tra Iran e Stati Uniti, i recenti mesi sono stati infatti motivo di forte apprensione per Baghdad che, se da un lato mantiene rapporti privilegiati con entrambi i contendenti, dall’altro rischia di diventare un potenziale terreno di scontro a causa degli interessi che entrambi nutrono in Iraq.
Quadro interno
Il 24 giungo 2019, a più di un anno dalle precedenti elezioni, il Parlamento iracheno ha approvato la nomina ai ministeri chiave dell’Interno, della Giustizia e della Difesa.[1] Con il completamento della squadra ministeriale, il premier Adel Abdul-Mahdi ha finalmente concluso il percorso di formazione del nuovo esecutivo iracheno, il cui insediamento era avvenuto il 25 ottobre scorso. Le ragioni dietro a un così lungo periodo di gestazione sono da ascriversi alle difficoltà riscontrate dal primo ministro di mediare tra posizioni politiche spesso molto distanti riguardo alla composizione del governo. Il nuovo premier si è infatti dimostrato incapace di influenzare o sovrastare la competizione fra i due politici a capo dei principali blocchi che si sono contesi la vittoria elettorale: il clerico sciita Moqtada al-Sadr, leader con la coalizione al-Sairoon del blocco Islah; e Hadi al-Ameri, front man del blocco al-Binaa e leader dell’alleanza al-Fatah, braccio politico delle Unità di mobilitazione popolare (Pmu), le milizie paramilitari legate all’Iran. Le aperte divergenze tra queste opposte forze politiche hanno creato fin dall’immediata fase post-elettorale un lungo periodo di impasse politica, sbloccata solo dall’elezione alla presidenza della Repubblica del candidato curdo Barham Salih nell’ottobre seguente.
Nonostante le difficoltà incontrate nel completare la squadra ministeriale e la partenza “in salita” del nuovo esecutivo, Mahdi sembra avere comunque formulato un’agenda di governo ambiziosa per intervenire efficacemente su quelle che si presentano come le principali sfide dell’Iraq post-Stato Islamico. Fra le priorità dell’esecutivo di Abdul-Mahdi rientrano sicuramente un’adeguata riforma fiscale, volta a rimettere in sesto un’economia per lungo tempo stagnante o in calo, e la ricerca di un equilibrio politico, sociale e securitario, condizioni essenziali per permettere al paese di voltare pagina dopo 15 anni di conflitti e violenza.
Per quanto riguarda la sfera economica, le prospettive del primo semestre 2019 per l’Iraq risultano in generale positive, come dimostrato dalla crescita del Pil, superiore ai valori dell’anno precedente, in massima parte grazie all’aumento del costo del greggio e al miglioramento delle condizioni della sicurezza.[2] Ciò nonostante, il paese deve ancora far fronte a notevoli sfide, tra cui creare un adeguato spazio fiscale per gli investimenti necessari alla crescita e avviare un lungo processo di diversificazione economica, necessaria a salvaguardare il paese dalla volatilità del mercato petrolifero – l’Iraq deve ancora il 92% del totale dei ricavi nazionali all’esportazione di combustibili fossili. Negli ultimi mesi l’Iraq ha specularmente avviato una politica espansionistica della propria industria petrolifera, sia per quanto riguarda le infrastrutture che per i mercati. Due avvenimenti hanno infatti sottolineato la necessità di una simile iniziativa: da un lato, la recente crisi che ha interessato lo Stretto di Hormuz, attraverso cui transita la maggior parte delle esportazioni di idrocarburi irachene (a giugno, dal porto di Bassora sono partiti 3,52 milioni di bpd); dall’altro, il continuo aumento della produzione irachena del greggio, i cui valori in crescita fanno presagire il raggiungimento (se non addirittura il superamento) delle cifre record ottenute lo scorso dicembre.[3] Con l’obiettivo di trovare nuovi sbocchi e nuovi mercati per il crescente export iracheno, il governo di Baghdad sta considerando la costruzione di oleodotti che attraversino gli stati confinanti di Giordania e Siria. Se con Amman il governo iracheno ha già stabilito gli accordi preliminari per la costruzione di un oleodotto che colleghi i porti di Bassora e di Aqaba, lo stesso non può dirsi per la Siria, nei cui confronti il Ministero del Petrolio iracheno sta ancora compiendo le necessarie valutazioni economiche, geografiche e securitarie.[4] Altro grande tema ancora ampiamente irrisolto rimane quello della disoccupazione, in particolar modo giovanile. Nonostante il fenomeno interessi il 22% dei giovani istruiti, dopo i moti di protesta di inizio settembre il governo ha di fatto ammesso la mancanza di piani per il loro inserimento nel mondo del lavoro.[5]
Specularmente alle riforme in ambito economico, la ricostruzione delle aree colpite durante la campagna di liberazione contro lo Stato Islamico è una delle questioni che maggiormente grava sulla ripresa economica dell’Iraq. La stima dei costi totali per la ricostruzione, calcolata dalla World Bank, ammontava all’inizio del 2018 a 88,2 miliardi di dollari americani,[6] una cifra sicuramente ambiziosa date le reali possibilità economiche irachene. Nonostante diversi donatori internazionali si siano dimostrati riluttanti a investire in un paese ancora fragile nel frangente politico e della sicurezza, Baghdad era riuscita a ottenere diverse promesse di finanziamenti da parte dei vicini regionali dell’Iraq, i quali avevano assicurato l’equivalente di 15 miliardi e mezzo per la sua ricostruzione. Ciò nonostante, a più di un anno di distanza, tali promesse rimangono ancora largamente disattese. In sostegno agli sforzi del governo di Baghdad, ad agosto l’Iraq e l’Onu hanno siglato il memorandum per l’istituzione del Iraq Reconstruction and Recovery Trust Fund, nel tentativo di incentivare il processo di ricostruzione e di attrarre fondi internazionali.[7]
Sul piano della governance locale, molte aree dell’Iraq restano ancora ampiamente sprovviste dei servizi di base. Negli ultimi mesi il governo ha dato priorità all’approvazione delle misure necessarie per attenuare le carenze infrastrutturali, specie nella fornitura di acqua potabile ed elettricità – ma anche la ricostruzione delle scuole e degli ospedali – che sul finire del 2018 avevano causato imponenti proteste di piazza contro le autorità, soprattutto nella provincia di Bassora, area a maggioranza sciita nel sud del paese. A tal fine, il 2 settembre il governo iracheno ha concordato con lo United Nations Development Programme (Undp) lo stanziamento di 33 miliardi di dollari americani a sostengo di progetti volti a favorire la ricostruzione di infrastrutture e il ripristino dei servizi essenziali (acqua, elettricità, sanità, alloggio, istruzione) nelle aree liberate dallo Stato Islamico, come la provincia di Ninive, Al-Ambar, Salah Al-Din, Diyala, Kirkur e di Bassora.[8]
Sugli sviluppi della sicurezza, invece, pesano il difficoltoso controllo del territorio nelle aree sottratte allo Stato Islamico e il reintegro o la smobilitazione dei gruppi paramilitari che negli ultimi anni si sono affiancate alle forze regolari irachene in diverse aree del paese. Da un lato, l’Iraq è ancora attivamente impegnato nella campagna di sradicamento delle cellule residue dello Stato Islamico. Su questo fronte, ad agosto il Ministero degli Esteri iracheno ha avanzato la richiesta per la formazione di una commissione speciale, sotto l’egida delle Nazioni Unite, per analizzare i crimini commessi dal Califfato.[9] Dall’altro, a luglio Baghdad ha imposto un ultimatum alle Pmu nel tentativo di integrarle all’interno delle forze armate del paese.[10] La necessità di un compromesso per Baghdad è emersa durante il successivo incontro con Hassan Rouhani, durante il quale il presidente iraniano ha garantito il sostegno di Teheran nell’assicurare il controllo dello stato iracheno sulle milizie.[11] Ciò nonostante, il premier Mahdi ha poi dichiarato la volontà di non sciogliere le Pmu, ma di farle agire come un reparto separato sotto il controllo del governo iracheno. La controversa riforma del settore della sicurezza lascia quindi presagire che un’architettura di sicurezza “ibrida” fra attori statali e non-statali sia, di fatto, la soluzione più attuabile.
Infine, il tema della riconciliazione si presenta forse come la sfida più importante che questo governo si trova ad affrontare nel lungo periodo – sebbene si riscontrino alcuni, piccoli, segnali incoraggianti. Estremamente complessa si dimostra nuovamente la riconciliazione che ancora fatica a delinearsi fra le molteplici comunità che abitano le aree liberate dallo Stato Islamico (non solo dunque la comunità arabo-sciita e quella arabo-sunnita, ma anche le varie minoranze etniche e religiose che abitano soprattutto il nord del paese).
Un ritorno alla coesistenza pacifica in queste aree è condizione necessaria per porre le basi della stabilità e lavorare sulle cause profonde che hanno favorito l’ascesa dello Stato Islamico. Uno dei problemi più pressanti riguarda il ritorno degli sfollati nelle aree liberate, ma anche il futuro delle famiglie dei combattenti caduti e dei prigionieri ritenuti appartenenti al gruppo terrorista, relegati in campi profughi o in prigioni sovraffollate senza assistenza e spesso vittime di abusi e torture, nonché processi ed esecuzioni sommari. I dati raccolti dalla missione in Iraq dell’International Organization for Migration attestano che, al 31 agosto 2019, oltre 1 milione e mezzo di sfollati interni abbiano fatto rientro nei loro distretti di appartenenza, circa un terzo dei quali nel solo governatorato di Ninive (la regione maggiormente colpita dalla campagna contro IS).[12]
Relazioni esterne
Nell’ultimo anno l’Iraq ha avviato un ambizioso programma di ridefinizione dei propri obiettivi e alleanze, incentrato su un approccio più pragmatico e bilanciato volto a garantire a Baghdad uno status di mediatore nel complesso – e sempre più teso – scacchiere regionale. L’intento della nuova leadership, tra cui si annoverano figure moderate e di comprovata esperienza internazionale, sembra infatti quello di instaurare buoni rapporti con tutti i propri vicini, sebbene permangano importanti differenze nei vari rapporti bilaterali.
Un simile obiettivo è però seriamente minacciato dal recente inasprimento delle relazioni tra gli Stati Uniti e l’interlocutore regionale di maggior rilievo per Baghdad, l’Iran. In questo contesto di polarizzazione, la politica estera irachena ha sempre cercato il più possibile di evitare lo schieramento in uno dei due blocchi, nel tentativo di mantenere tanto la preziosa partnership con Washington quanto i rapporti amichevoli ed economicamente imprescindibili con Teheran. Non va infatti dimenticato che l’Iraq importa 1,5 miliardi di metri cubi di gas dalla Repubblica Islamica, necessari per alimentare circa il 45% del proprio fabbisogno interno di energia elettrica. Per Teheran l’Iraq rimane un vicino strategicamente fondamentale, sia per la contiguità geografica – i due paesi condividono 1.400 km di frontiera comune –, sia come piattaforma di proiezione della propria influenza nella regione. Con la storica visita del presidente iraniano Hassan Rouhani a Baghdad lo scorso marzo, la prima in assoluto dal suo insediamento nel 2013, la Repubblica Islamica ha mandato un chiaro messaggio a Washington. Nell’occasione, i due paesi hanno siglato una serie di accordi preliminari per incrementare la cooperazione economica bilaterale in vari settori, inclusi quelli dell’energia, dei collegamenti ferroviari, della sanità, e dei visti per imprenditori e investitori dei rispettivi paesi. Queste transazioni, per quanto non vincolanti, evidenziano la chiara volontà di Teheran e Baghdad di intensificare, in un momento comunque delicato per entrambi, le proprie relazioni economiche, contribuendo ad aumentare l’interscambio commerciale da 12 a 20 miliardi di dollari su base annua. Se da un lato, infatti, l’Iraq sta affrontando un difficile e dispendioso processo di ricostruzione interna dopo la caduta dello Stato Islamico, dall’altro l’Iran non può permettersi di perdere partner economici, specie se confinanti, a causa delle sanzioni americane sempre più severe che stanno pesantemente limitando la sua economia interna.
Il difficile tentativo iracheno di bilanciare i rapporti tra i due fronti opposti ha messo in notevole difficoltà Baghdad anche nelle sue relazioni con Israele. Il paese con la stella di David, infatti, è ritenuto il principale sospettato di una serie di raid aerei che, tra luglio e agosto, hanno colpito obiettivi militari – in massima parte depositi di munizioni, ma nell’ultimo caso anche un convoglio di veicoli – appartenenti alle milizie sciite legate all’Iran[13]. Sebbene Tel Aviv non si sia ancora espressa a riguardo, sarebbe plausibile ritenere questi attacchi come una parte della più ampia campagna di contenimento che Israele sta perpetuando nella regione ai danni degli alleati di Teheran, come testimoniano le operazioni dell’aviazione israeliana avvenute nello stesso periodo anche in Sira e Libano.[14] Queste chiare violazioni della sovranità nazionale irachena, oltre a ridurre drasticamente le capacità dello stato iracheno di esercitare una certa forma di autorità sulle milizie, rischiano seriamente di minare la stabilità dell’amministrazione di Abdul Mahdi, che da una parte corre il rischio di perdere credibilità agli occhi della popolazione irachena e, dall’altra, di minare i rapporti con Washington, il suo principale partner internazionale, nel caso in cui tentasse una qualunque prova di forza nei confronti di Israele.
Nel tentativo di rafforzare la sua politica del buon vicinato, Baghdad guarda anche all’Arabia Saudita, grande rivale di Teheran, con la quale il nuovo governo iracheno ha recentemente rafforzato la cooperazione, come confermano la riapertura del consolato saudita a Baghdad e la volontà di Riyadh di contribuire alla ricostruzione dell’Iraq per una cifra pari a un miliardo di dollari, che si aggiunge a prestiti per 500 milioni di dollari destinati alla promozione delle esportazioni su base bilaterale. A dimostrazione del comune impegno a incrementare le relazioni commerciali tra i due paesi, a luglio è stata annunciata la riapertura del varco di confine di Arar, previsto per il 15 ottobre.[15] Il riavvicinamento tra i due testimonia, da un lato, la volontà irachena di stabilire rapporti cordiali e vantaggiosi con tutti gli stati vicini e di agire in qualità di mediatore quando i rapporti tra questi ultimi sono tesi. Molti iracheni, infatti, inclusi gli sciiti, sembrano guardare con positività al ritorno dell’Arabia Saudita, soprattutto in termini di maggiori opportunità economiche e di una minore dipendenza dall’Iran. Dall’altro, indica il ritorno a una politica pragmatica da parte di Riyadh, nella consapevolezza che buoni rapporti con la maggioranza sciita irachena, piuttosto che un’esclusiva attenzione a quella sunnita, sono imprescindibili per riuscire a influenzare, almeno in minima parte, le dinamiche irachene in un’ottica di competizione con l’Iran.[16]
L’Iraq intrattiene rapporti cordiali anche con la Turchia, altro principale attore nella regione. Dopo le tensioni causate dai frequenti sconfinamenti dell’esercito turco nel nord dell’Iraq per colpire le postazioni del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), considerato un’organizzazione terroristica da Ankara – recentemente è iniziata la terza fase di questa campagna militare[17] – il presidente del Parlamento iracheno Mohammed al-Halbusi ha smorzato i toni dichiarando che i due paesi intrattengono “ottime relazioni” e stanno lavorando a vari e “promettenti progetti di cooperazione economica”. Un’ulteriore conferma è arrivata a maggio in occasione della visita ufficiale del ministro degli Esteri turco Mevlüt Çavuşoğlu, durante la quale egli ha ribadito l’impegno della Turchia a sostenere la ricostruzione irachena (Ankara nel 2018 ha garantito oltre 5 miliardi di dollari in aiuti a Baghdad), anticipando anche la riapertura dei consolati di Mosul e Bassora e l’apertura di un nuovo valico di frontiera a Sirnak per facilitare l’interscambio commerciale sia con Erbil sia con il resto del paese. Lo stesso Çavuşoğlu ha poi garantito che l’attacco del 17 luglio, costato la vita a un diplomatico turco a Erbil, non ha intaccato le relazioni con Baghdad.[18]
In una prospettiva internazionale, l’Iraq continua a mantenere rapporti privilegiati con gli Stati Uniti, soprattutto nell’ambito della cooperazione militare e della lotta al terrorismo. A maggio il primo ministro Mahdi aveva rassicurato il segretario di Stato Mike Pompeo sull’impegno di Baghdad nel sostenere la missione statunitense alla lotta al terrorismo – con la presenza di oltre 5000 militari Usa in Iraq – e alla ricostruzione del paese, così come a prevenire possibili minacce iraniane agli interessi americani nella regione. Gli attacchi di luglio e agosto hanno però messo in luce i limiti del governo iracheno e hanno avuto serie ripercussioni anche sulla percezione della società irachena sulla presenza statunitense nel paese, i cui interessi rischiano di diventare il bersaglio di una risposta violenta da parte delle frange ostili.[19] Dal canto suo, Washington ha negato in via ufficiale un suo coinvolgimento nei raid, ricordando l’impegno statunitense a cooperare con le indagini in corso e ribadendo al contrario il suo interesse a garantire la piena sovranità di un paese di importanza strategica per gli Stati Uniti.[20]
Un altro attore internazionale particolarmente attivo in Iraq è la Russia, come testimonia la stretta collaborazione militare tra Baghdad e Mosca, sia nello scambio di intelligence sia nell’acquisto di armamenti russi da parte irachena; a tal proposito importante ricordare il contratto firmato dall’azienda Uralvagonzavod per la fornitura di carri armati T90. Le recenti violazioni dello spazio aereo iracheno hanno poi accelerato l’interesse per i sistemi missilistici russi da parte di Baghdad, che da mesi tenta di incrementare il proprio apparato di difesa antiaerea.[21] Gli ottimi legami con Mosca confermano ancora una volta la politica bilanciata e pragmatica del nuovo governo iracheno, attenta ad assicurarsi tutte le possibili opportunità di cooperazione, a dispetto delle tensioni tra i propri partner internazionali. Di recente, anche la Cina si sta progressivamente avvicinando all’Iraq, come dimostrato dall’incontro tra il presidente iracheno Barhim Salih e l’ambasciatore cinese in Iraq Zhang Tao ad agosto, durante il quale è emersa la volontà reciproca di rafforzare le relazioni bilaterali in ambito di sviluppo e cooperazione. Significativo, in quest’ottica, è stato l’accordo firmato a settembre tra l’irachena Basra Oil Company e la cinese Hilong Oil Service & Engineering Co. per l’allestimento di 80 nuovi pozzi per un valore totale di 54 milioni di dollari americani.[22]
Infine, degna di nota è stata la dichiarazione del Vaticano che, a giugno, ha annunciato la volontà di Papa Francesco di visitare l’Iraq nel 2020, una evento che il presidente iracheno Barham Salih ha definito “storico”.[23]
Note
[1] Iraqi Parliament Votes in Defense, Interior, Justice Ministers: Lawmakers, Reuters, 24 giugno 2019.
[2] “Iraq: Selected Issue: IMF Country Report No. 19/249”, International Monetary Fund, luglio 2019.
[3] S. Watkins, “Iraq Moves To Upgrade Oil Export Capacity,” Oil Price.com, 17 agosto 2019.
[4] O. Sattar, “Iraq plans to launch pipelines to export oil through Jordan and Syria,” 19 luglio 2019.
[5] C. Stratford, “Iraq Protests: Thousands of Graduates Demand Jobs from Government”, Al-Jazeera, 2 settembre 2019.
[6] World Bank Group, “Iraq: Reconstruction and Investments. Part 2: Damage and Needs Assessments of Affected Governorates”, gennaio 2018, p. 16.
[7] UN Assistance Mission for Iraq, Memorandum of Understanding on Iraq Reconstruction and Recovery Trust Fund, 1 agosto 2019.
[8] Iraq Sign $33m Agreement with UNDP to Support Stabilization Efforts, The Government of Iraq, 2 settembre 2019.
[9] “Special UN Commission to Investigate Daesh Crimes in Iraq”, The Middle East Monitor, 17 agosto 2019.
[10] A. Mamouri, “Iraq Orders Militias to Fully Integrate into State Security Forces”, Al-Monitor, 2 luglio 2019.
[11] A. Mamouri, “Iraq Seeks Iranian Assistance to Curb Militia’s Reign”, Al-Monitor, 24 luglio 2019.
[12] International Organization for Migration (IOM) – Iraq Mission, Displacement Tracking Matrix, 31 agosto 2019.
[13] F.S. Schiavi, “Raid aerei in Iraq: cosa sta accadendo?”, ISPI, 4 settembre 2019.
[14] J. Hincks, “Israel Is Escalating Its Shadow War with Iran: Here Is What to Know”, The Time, 29 agosto 2019.
[15] M. Aldroubi, “Iraqi-Saudi Border Crossing to Reopen on October 15”, The National, 16 luglio 2019.
[16] “How Saudi Arabia Is Trying to Counter Iranian Influence in Iraq”, World Politics Review, 30 maggio 2019.
[17] J. Catherine, “Turkey begins ‘Operation Claw 3’ against PKK in Kurdistan’s Duhok province”, Kurdistan 24, 24 agosto 2019.
[18] “Foreign Minister Calls Turkish Counterpart Mr. Mevlut Cavusoglu,” Republic of Iraq: Minister of Foreign Affairs, 17 luglio 2019.
[19] J. Magid, “Alleged Israeli strikes in Iraq unlikely to threaten US presence, experts says”, The Times of Israel, 31 agosto 2019.
[20] United States Department of Defense, “Immediate Release: Statement on Recent Attacks in Iraq”, 26 agosto 2019.
[21] R. Mamedov, “Will Russia reinforce Iraq’s air defenses?”, Al-Monitor, 11 settembre 2019.
[22] Iraq signs contract with Chinese oil company to complete 80 wells in Iraq, Xinhua News Agency, 9 settembre 2019.
[23] “Iraq: Presidente Salih: la visita del Papa un evento storico”, Vatican News, 14 giugno 2019.