We have a deal
I governi dei paesi G7 hanno raggiunto un accordo per una “tassa minima globale”. Dopo quasi un decennio di negoziati che avevano sempre incontrato l’opposizione di Washington, Biden ha accolto le richieste dei governi europei (Francia in testa, Italia e Germania al seguito) che minacciavano di fare da soli.
Adesso il negoziato si sposta al G20, dove si spera di convincere rapidamente gli altri “grandi”: per un accordo di principio si parla già del G20 delle Finanze a Venezia di luglio.
Un “momento storico”?
Così lo ha definito Le Maire, il ministro delle finanze francese. L’accordo prevede una tassa minima globale del 15% per le grandi multinazionali e l’obbligo per quelle “digitali” a pagare maggiori tasse sui profitti nei paesi in cui i servizi vengono erogati.
Ma attenzione a non sopravvalutare la portata dell’intesa. Innanzitutto, quel 15% è più basso del 21% proposto in aprile dallo stesso Biden, che così “salva” Londra (tassa al 19%) e penalizza meno l’Irlanda (oggi 12,5%). Inoltre per la sua applicazione serviranno diversi anni: i paesi dovranno adottare la legislazione necessaria senza introdurre scappatoie.
Con il nuovo regime in vigore, per gli Usa ci sarebbero 48 miliardi di euro l’anno di maggiori entrate, per l’Europa 40, per l’Italia 3: sembra molto, ma è solo lo 0,3%-0,7% delle entrate complessive.
America is back?
La rapidità con cui si è giunti a un accordo tra i paesi G7 è stata salutata come un segnale: con Trump uscito di scena il multilateralismo è tornato, e la Casa Bianca è ben contenta di riprendere in mano il ruolo di guida delle “democrazie ricche”.
Ma dietro agli annunci rimane l’opportunismo: Washington aveva bisogno dell’accordo per rendere più attuabile l’aumento di tasse alle proprie imprese senza che queste ultime vadano altrove. Quelle entrate servono a Biden per finanziare il suo piano di investimenti da 4.200 miliardi di dollari.
Ed è proprio negli Usa che si giocherà gran parte della partita: il 72% dei profitti delle 100 multinazionali più grandi è in America. Biden o no, il Congresso americano è già sul piede di guerra.