Per la prima volta un presidente americano riconosce il genocidio armeno. L’ira di Ankara: “Schiaffo alle nostre relazioni”.
“Le parole non possono cambiare o riscrivere la storia. E noi non prendiamo lezioni sul nostro passato da nessuno”: è affidata ad un tweet del ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu la prima, gelida reazione della Turchia alle parole di Joe Biden. Sabato, nel giorno del 106esimo anniversario dell’inizio dello sterminio del popolo armeno, il presidente americano ha fatto quello che nessun suo predecessore si era mai spinto a fare. Ha riconosciuto come “genocidio” la serie di massacri e deportazioni che tra il 1915 e il 1916 portarono alla morte di un milione e mezzo di armeni residenti nell’allora impero ottomano. “Vediamo questo dolore. Confermiamo la storia. Non lo stiamo facendo per incolpare ma per garantire che quello che è successo non accada di nuovo”, ha detto Biden, dando seguito a una promessa formulata in campagna elettorale. Le sue parole hanno scatenato la dura condanna di funzionari turchi, sebbene il presidente Recep Tayyip Erdogan non si sia ancora espresso sulla questione. La Turchia rifiuta di definire gli eventi di quegli anni con la parola “genocidio”, sostenendo che turchi e armeni sono rimasti uccisi in combattimenti durante la Prima guerra mondiale e che il massacro degli armeni fu innescato da una loro rivolta contro l’impero ottomano ormai al collasso. Per anni, i presidenti americani hanno evitato di usare la parola “genocidio” per descrivere ciò che gli armeni chiamano Meds Yeghern, o il ‘Grande male’. Fino a sabato.
Un’arma politica?
La questione del genocidio armeno grava da anni sulle relazioni tra Washington e Ankara. Un riconoscimento – se anche non ha implicazioni pratiche ed è tuttora argomento di dibattito tra gli storici – invia un segnale politico forte e, come ha sottolineato il ministro degli Esteri turco, apre “una ferita irrecuperabile nelle nostre relazioni”. A premere da anni sulla politica americana per una decisione simile era stata la molto attiva diaspora armena, forte negli Usa di circa due milioni di residenti, con una forte concentrazione in California, stato di provenienza della vicepresidente Kamala Harris. Prima d’ora si era avanzata l’ipotesi che a farlo potessero essere già i presidenti Carter, Reagan, Obama e Trump. Ma finora nessuno aveva rischiato di pregiudicare le relazioni con un prezioso alleato strategico e membro Nato, che ospita sul suo suolo la base aerea di İncirlik. Nel 2019 il Congresso si era espresso con una maggioranza schiacciante a favore del riconoscimento del genocidio armeno, ma l’ex presidente Donald Trump si era limitato a definirlo “una delle peggiori atrocità del XX secolo”. Per questo se la Turchia ha convocato l’ambasciatore americano per esprimere la forte condanna di Ankara, di tutt’altro tono sono state le reazioni provenienti da Erevan: “Un passo potente”, lo ha definito il premier armeno dimissionario Nikol Pashinyan, “che servirà a prevenire la ripetizione di simili crimini contro il genere umano”.
Perché ora?
L’annuncio arriva in un momento in cui le relazioni turco-americane sono estremamente tese. Gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni ai funzionari della difesa turca dopo che Ankara, nel luglio 2019, ha acquistato il sistema di difesa missilistica S400 di fabbricazione russa. L'acquisto era stato messo all'indice da diversi paesi occidentali, che ne hanno evidenziato l'incompatibilità con i sistemi Nato. E l'interventismo in Siria, Libia, Iraq e Azerbaijan ha complicato le cose. Dal canto suo, Ankara è frustrata dal sostegno di Washington ai combattenti curdi siriani legati al Pkk e dalla mancata estradizione da parte degli Usa di Fethullah Gulen, il religioso turco accusato da Ankara di aver ordito un colpo di stato contro Erdogan nel 2016. In questo scenario, alle cautele di ieri si sono sostituite nuove consapevolezze: l’attuale amministrazione ha deciso di spingere più di quanto abbiano fatto le precedenti sui diritti umani e sa che in questo momento il presidente turco è in difficoltà. Anche se le prossime elezioni politiche e presidenziali sono lontane, nel 2023, l’impopolarità dell’Akp è già nell’aria. Il partito che governa la Turchia dal 2003 perde terreno sulla scia della crisi della lira turca, che a sua volta tiene alta l’inflazione e mentre il paese si scopre a corto di riserve valutarie. È quindi il momento giusto per rimettere in riga un alleato riottoso, bisognoso del sostegno occidentale anche per calmare il nervosismo dei mercati.
Cambio di passo?
In altre parole, l’attuale amministrazione ha ritenuto fosse arrivato il momento di compiere quel passo che i leader politici americani minacciavano di fare da molto tempo. “Allo stato attuale – osserva Aaron Blake sul Washington Post – è una delle prime e principali sottotrame dell’agenda emergente della politica estera di Biden”. Ma questo non significa che non sia un passo coraggioso o che non possa avere contraccolpi nella regione e nella politica estera degli Stati Uniti. Per questo la dichiarazione del presidente americano sulla questione armena è stata pubblicata in forma scritta dalla Casa Bianca. E il linguaggio utilizzato appare calibrato, nel tentativo di attribuire la responsabilità di quanto accaduto tra il 1915 e il 1916 all’allora impero ottomano e non all’attuale Turchia: “Lo facciamo non per incolpare qualcuno – scrive – ma per assicurarci che quanto accaduto non si possa ripetere”. Inoltre, prima di pubblicarlo, il presidente americano ha chiamato il suo omologo turco, per la prima volta dal suo insediamento, e i due hanno stabilito che si parleranno a quattr’occhi in un incontro bilaterale in occasione del prossimo vertice Nato del 14 giugno. Un’occasione per aggiustare il tiro? Si vedrà. Per ora, sdegno a parte, Erdogan non è intervenuto sulla vicenda e la strategia di Biden è basata su un convincimento: che la Turchia, in questo momento, abbia bisogno degli Stati Uniti più di quanto gli Stati Uniti abbiano bisogno della Turchia.
Il commento
Di Carlo Marsili, ISPI Senior Advisor Osservatorio Mena
“Quella tra Turchia e Stati Uniti sul ‘genocidio’ armeno è una questione che si inserisce in un progressivo deterioramento dei rapporti bilaterali, verificatosi in questi ultimi anni. All’origine delle tensioni tra Washington e Ankara ci sono varie questioni: l’intervento militare della Turchia in Siria, le relazioni ‘equivoche’ di Ankara con Mosca, la disputa su Fetullah Gulen, il religioso turco considerato l’artefice del fallito colpo di stato ai danni di Erdogan nel 2016, in esilio negli Usa, il futuro della Libia e il Mediterraneo Orientale.
Perché oggi? Biden ha voluto mandare a Erdogan un segnale di discontinuità con i suoi predecessori ma era anche vincolato dalle pressioni interne del proprio partito e dalle sue stesse promesse elettorali, che hanno tenuto conto della forte valenza dell’elettorato di origine armena specie in California. Ma nonostante le rimostranze turche, quanto accaduto non porterà ad una rottura tra i due principali eserciti della Nato: gli Stati Uniti sono ben consapevoli dell’insostituibile ruolo geostrategico della Turchia”.
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A cura della redazione di ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca, ISPI Advisor for Online Publications)